mercoledì 28 dicembre 2011

Primo giorno di scuola


La maestra era vecchia ma entrò nell'aula a passo veloce e salì in cattedra. Poi sollevò un braccio e indicando la finestra disse "Buongiorno, bambini! Oggi splende il...?" Visto che con gli occhi invitava a completare la frase, tutti senza esitare esclamarono in coro "sole!". Tutti tranne me. L'altrui perspicacia mi annichilì: a me, quella mattina del 1974, sembrava che splendessero molte cose. I banchi, le penne nuove, le pareti dell'aula. Il rossetto un po' grumoso della maestra, gli occhi dei miei compagni. Oltre il vetro, poi, splendevano gli alberi, la ringhiera che abbracciava il cortile, il cielo luminoso... Come diavolo avevano fatto gli altri a capire in un istante cosa splendesse in primo luogo, cosa splendesse in una sua diversa, distaccata antonomasia?


martedì 27 dicembre 2011

La traccia animale


Ringrazio Andrea Cortellessa per aver fatto uscire nel giro di qualche settimana (lusinghieri regali di Natale) ben due recensioni della Gallina, che intrattengono un rapporto di differenza deleuziana (una differenza, cioè, non oppositiva). La prima è apparsa sul numero sette di Alfabeta2, ancora in edicola; la seconda sulla rivista svizzera Galatea, un nome che evoca perversioni "unheimliche" non meno che mitologiche. Eccone in calce la trascrizione, qui invece il link a Galatea e ad Alfabeta2:

http://www.galatea.ch/index.php/sommario/diario/libri/item/281-un-fisico-bestiale.html

http://www.alfabeta2.it/




Un fisico bestiale
di Andrea Cortellessa






L’animale, si diceva, è il diverso dall’uomo. In quanto tale da sempre rappresenta un termine di paragone con le dinamiche umane che dallo stato di natura più si discostano.
Nonché, nei loro confronti, quello che è il più delle volte un - più o meno implicito - atto d’accusa. Un apologo di tal fatta si può leggere nel notevole romanzo d’esordio di Fabrizio Ottaviani (La gallina, Marsilio, pp. 237, € 18,50). In cui una «traccia animale» - una gallina recapitata non si sa bene da chi - mette a soqquadro ‘Casa De Giorgi’: la fortezza alto-borghese nel cui claustrofobico intérieur i coniugi Elena e Massimiliano, irreprensibili cittadini di un’innominata città in un imprecisato periodo del Novecento, conducono un’esistenza perfettamente regolata dalla rigida maschera sociale che si sono imposti. La gallina interviene imprevedibile a disorganizzare quell’ordine: mettendone a nudo l’intrinseca fragilità. Tanto la servitù che gli stessi padroni di casa si rivelano incapaci - per l’ossessiva civilisation della quale sono ammantati - di disfarsene nel modo più spiccio e brutale. L’animale immette, in quella Prussia, un elemento selvatico e incontrollato. Bercia, insozza, puzza. La vita sociale dei De Giorgi va a picco e, con essa, le loro lucrose attività. Va così in scena la «caduta di casa De Giorgi», parodia dell’incubo di Poe: un processo farsesco, un’estromissione dalla mega-ditta (pungenti le pagine - tra Kafka e i fratelli Coen - sulla riunione del cda in un’alta torre in preda ai venti), persino un incidente mortale scandiscono un comicissimo crescendo a precipizio (che alle modalità da opera buffa di Palazzeschi deve senz’altro). In una struttura assai tradizionale, ma con scrittura d’ironia sorvegliatissima, Ottaviani riesce a immettere acidi davvero corrosivi di satira sociale, nonché una stralunatezza tutta novecentesca (altri riferimenti vanno indicati in Buzzati e nel Landolfi delle Due zittelle): la gallina della copertina, virata a colori acidi nel filtro che ne consente la visione in 3D, è in questo senso un manifesto.


domenica 27 novembre 2011

La bilancia della tempestività





Di fronte ad un testo evidentemente datato, un regista teatrale ha poche possibilità. Può smorzare le parti che più hanno subito i rigori del tempo, e alzare di converso il volume ai brani meno centrali ma più attuali, sperando che alla fine la bilancia della tempestività non risulti troppo obliqua. E' la scelta "pietosa", quella che soccorre. Può tentare un'edizione filologica, quindi professorale e ad uso esclusivo degli accademici (opzione critico-museale). Oppure può tentare un'operazione ermeneuticamente avventurosa: può mettere in scena per l'appunto l'essenza ormai usurata del testo, il suo nucleo funzionale, e chiedersi chi potrebbe trovarlo accettabile, gradevole o persino appassionante. E' ciò che ha fatto Lavia per I masnadieri di Schiller al teatro India, a Roma. La scena è un profondo parallelepipedo con la base d'argilla, mentre le pareti sono ricoperte di graffiti nello stile di Basquiat. Gli attori, vestiti come hipster, impugnano spesso la chitarra, cantano da soli o in coro, si spostano assieme (come nei balletti televisivi) e quando recitano si muovono come personaggi di un musical sfacciatamente commerciale, per esempio, l'eterno Fantasma dell'opera. Non c'è dubbio: per Lavia il preromanticismo di Schiller, come pure l'altisonante retorica dello Sturm und Drang - didascalicamente richiamato nei graffiti, ovviamente a caratteri gotici - può attrarre solo gli "amici" della De Filippi: è, insomma, cascame, destinabile al massimo al pubblico più sprovveduto. Naturalmente questa operazione aggressiva è, propriamente, un'esecuzione capitale: Lavia vuole uccidere in scena I masnadieri. Purtroppo questa scelta (e si tratta di una scelta non solo legittima, ma proficua) pone un problema: quello della resa teatrale, e in particolare quello della mancata identificazione con le dramatis personae. Per scongiurare la noia, che sarebbe l'immediata conseguenza di questa mancata identificazione, Lavia ha solo due strumenti. Il primo è il periodico ricorso a degli "stalli", in cui una voce fuori campo riporta il tono della pièce al "serio". Il secondo, è la semplicità della mente degli spettatori, i quali nelle due ore dei Masnadieri non hanno esitato ad applaudire a scena aperta proprio i momenti in cui le pulsioni dissacratorie del regista raggiungevano il culmine.

giovedì 10 novembre 2011

Io, invece


Ieri pomeriggio, alle 18,30, presentazione di due romanzi in contemporanea. Decido di accettare, l'invito viene da un'amica. Gli autori stabiliscono di parlare l'uno del libro dell'altro, andrebbe tutto bene ma l'autore n.1 parla per circa un quarto d'ora del romanzo dell'autore n. 2, mentre l'autore n. 2 proprio non ce la fa a ricambiare. A dire il vero ci prova, ce la mette tutta, ma il compito è superiore alle sue forze. E' anche poeta, è troppo self-centered, è inevitabile: per ogni frase dedicata all'altro ce ne sono tre che parlano di sé, del suo romanzo o della sua vita. Si imbarca in una laudatio temporis acti che non finisce più. Ricorda con nostalgia gli anni '60, ha il mito della Vita agra di Bianciardi: quando tutti erano più buoni e poveri e puliti e ancora non avevano sigillato Piazza Vittorio sotto alcune tonnellate di travertino (dimenticando con tutta evidenza che la Vita agra raffigura gli anni del boom economico come un inferno). Biasima anche i radical chic che trangugiano aperitivi al Pigneto, il quartiere amato da Pasolini, e quasi si commuove al ricordo delle poverissime borgate romane di una volta.
L'altro romanziere è leggermente irritato dal fatto che il tempo dedicato al suo volume è stato decisamente inferiore, ma annuisce: in fondo anche il suo libro parla di un quartiere popolare, San Giovanni, e in particolare di un casermone della Cooperativa Tranvieri, cui corre grata la memoria.
Quando vado via, mi avvicino allo scrittore della cooperativa tranvieri e gli dico che leggerò volentieri il romanzo. E anche se temo che nel mio appartamento ci siano troppi quadri per darmi delle arie lumpen, aggiungo che io, a San Giovanni, ci abito. Lui mi sorride e mi risponde con la bonarietà di chi ti allunga una coltellata: "Ma che bello, io invece abito a Via dei Serpenti." Mi congratulo, poi sorrido (solo a me stesso) della mia ingenuità, e mi guardo attorno: siamo praticamente appollaiati sopra Fontana di Trevi, sulla terrazza di un albergo. Potremmo gettare la monetina da quassù ed uccidere un turista giapponese, non se ne accorgerebbe nessuno. La sobrietà è una gran cosa, ma meglio ammirarla da una postazione differente. Più aquilina. Sì, forse abbiamo avuto un passato parco. Ed è giusto abbandonarsi alla nostalgia. Ma non bisogna esagerare.
Saluto anche l'altro scrittore, ma stavolta da lontano. Che la sua vita agra si svolga, attualmente, ai Parioli?


mercoledì 26 ottobre 2011

Mai (nemmeno una volta)



Dopo aver visto A dangerous method - Freud contro Jung secondo un Cronemberg qui al suo minimo storico - posso tranquillamente continuare a giudicare come invulnerabile alla smentita la seguente, inveterata mia convinzione: mai (nemmeno una volta) in un film uno scienziato, un filosofo o un accademico sono stati rappresentati in modo credibile. Ma stavolta si è toccato il fondo: Freud, che per Breton era un petit veillard sans allure, rassomiglia a una specie di grosso boscaiolo con il sigaro sempre acceso e "racconta" i suoi sogni a Jung il quale, figurarsi, "li interpreta". Poi i due si danno il cambio, Jung racconta il sogno e Freud cerca di capirci qualcosa. Per sperare che anche un semplice uomo di concetto sia raffigurato per bene in pellicola bisognerà attendere il giorno in cui i registi saranno filosofi, o i filosofi registi.

martedì 25 ottobre 2011

Zanzotto, il noto ecologista.




Sfogliando i quotidiani il giorno della morte di Zanzotto, noto che soprattutto un aspetto ha colpito i giornalisti: l'impegno ecologista del poeta. Addio al poeta dell'ambiente, è scomparso il poeta delle montagne, il cantore della natura non c'è più: questi i titoli. Ancora una volta, l'equivoco regna sovrano. Come dice Sklovskij nel Punteggio di Amburgo: "Le piazze intorno alle grandi tombe sono lastricate con le buone intenzioni dei filistei, che fanno dono ai morti delle loro virtù".

martedì 4 ottobre 2011

Elogio della frigida





Stanotte, mentre dormivo, il fantasma di Adorno è venuto a trovarmi. In piedi in un angolo della stanza, giocherellava con il mio arco da caccia. Gli erano ricresciuti tutti i capelli. Stavo per interrogarlo quando mi ha apostrofato: "Taci! E domani, appena ti svegli, scrivi al posto mio un elogio della frigida!" Poi ha scagliato un'invisibile freccia in direzione dell'abat-jour, ed io mi sono riaddormentato.




ELOGIO DELLA FRIGIDA
La meccanica e il teatro del sesso, allorché essi siano ricondotti a quel gesto prototipico che, pur deformando e misconoscendo l’essenziale, domina col suo abbozzato formulario sia il linguaggio comune sia l’immaginazione, appare determinata dal desiderio maschile di infliggere e di immobilizzare, cui segue nella donna qualcosa come il subire un sopruso. Tuttavia, se fisicamente e persino politicamente un tale schema appare accettabile, non lo è per nulla se si passa a considerazioni che riguardano il piacere e gli effetti che esso produce. Infatti al progressivo crescere del successo maschile corrisponde non un maggiore potere di controllo sulla donna, ma una sua paradossale fuga sur place, fuga raccolta euforicamente dal gergo nella frase secondo cui lei «va via di testa». In realtà, è andata via del tutto: non appena la trappola sembra scattata, la preda è ormai lontanissima ed avvilisce l’uomo riducendone il ruolo a quello di semplice e anonimo detonatore di processi, i quali hanno in sé, e non in chi li ha fatti scattare, il loro centro. Qui a conferma vale meno la proverbiale e mai stabilita maggiore, rispetto all’uomo, capacità femminile di godere, e più gli occhi chiusi, a motivare i quali è evidentemente estraneo qualsiasi pudore. Che il sentire animale e propriocettivo prevalga sul teoretico vedere non implica infatti alcuna scesa a patti con la materia, ed è anzi il sintomo di un capovolgimento dell’infinitamente vicino nell’infinitamente remoto. Perché questo accade? Perché la carne umana contiene un’aporia. Aristotele sosteneva nel De anima che nel tatto la carne si trasforma in medium, affermazione sbalorditiva che si tollera solo per un secondo, prima di accorgersi che essa distrugge la plausibilità della teoria dell’anima come forma del corpo, palesando l’insostenibilità dell’identità tra vita e conoscenza su cui quella teoria si basa. Che nel tatto la carne sia un medium vuol dire che il corpo animato o conosce o vive, ma mai che esso conosce e vive nello stesso istante. Infatti, poiché la carne fa parte della persona, mentre l’aria e l’acqua (i media del vedere e del gustare) no, nel tatto l’anima è più che mai ridotta ad un punto metafisico e separato, e dunque semplicemente scompare. Il cuscino del corpo, che con la sua vitale opacità impediva che ci si soffermasse troppo a lungo su cosa potesse mai significare un’aderenza tra anima e mondo, diventa corpo estraneo non appena lo si classifica tra gli strumenti; soffocata da partes extra partes, anche l’anima smette ben presto di essere concepibile. È proprio per questo che le donne ripagano con la loro tenerezza i loro amanti soltanto dopo, quando tutto è finito: la gratitudine femminile è basata sulla memoria, non su un presente in cui lo scambio è tale solo ad uno sguardo altro: profodità del voyerismo, che osserva la scissione tra piacere maschile e femminile solo per pacificarli estrinsecamente, e trarre da essi un piacere terzo e finalmente conciliato. Dalla struttura di fuga o di «partenza» del piacere femminile deriva perciò a sorpresa una generale e ricattatoria lezione di moralismo, se per moralismo si intende il rifiuto della pura ed autosufficiente simmetria tra il sé e ciò che esso possiede: la conquista dell’oggetto sarebbe simultanea al dominio solo a patto che il dominio appartenga al campo della magia, e il dominante assomigli all’apprenti sorcier. Paradossalmente, si conquista l’oggetto lasciando che in esso si liberino delle forze centrifughe, e questo proprio nell’istante in cui si spera che la violenza duri eternamente. Bisogna sottomettersi ad una necessità esterna: la felicità è il premio che segue al più mieloso rispetto delle leggi.
A questo cosmo fatale è estranea la frigida, colei che è sempre presente e che non smette di sperare nella comunicazione immediata. Ha compreso che un corpo ridotto a strumento, in virtù della sua perfezione dionisiacamente eccedente, fa torto sia alla materia sia allo spirito, perché impedisce di fare a meno della loro distinzione. Economicamente simula il baratto, l’esclusione di un piacere-cartamoneta che appartenendo al sistema costringe ad immettere il proprio desiderio nel circolo dei beni comuni. Contrasta la brutta piega che prende il corpo quando si lascia andare, e la brutta piega è la scomparsa dell’anima dal mondo, quell’anima che proprio ora, netta ed erotizzata, doveva invece afferrare l’occasione per cancellare da sé la cattiva fama di vuoto fantasma orfico, che la perseguita da sempre. Lucida e sempre ad occhi aperti, a meno che non finga, la frigida si appropria di quel voyerismo che non è solo volontà determinata di possesso, ma anche e soprattutto identità tra sé e l’altro. Sacrificando il piacere alla conoscenza, si ribella all’obbligo di vedere la carne sotto la specie della mediazione e del simbolo; precipitando coscientemente nella propria materia, invece di lasciarsi trasportare da essa come su di un tappeto volante, libera l’uomo dall’equivoco e lo salva dalla condanna di Sisifo.

venerdì 30 settembre 2011

Alberto Garlini parla della Gallina.

Questo è il link ad un breve video di Aberto Garlini, dedicato al simpatico animaletto che annienta casa De Giorgi: http://www.pnbox.tv/videolink.asp?video=5585.wmv

La racconto lo stesso, anche se nessuno mi crederà.

Stamattina sono andato a ritirare delle cravatte in lavanderia. Il figlio della titolare (sono rumeni: bravissime persone con cui si può chiacchierare di politica, e anche di geopolitica) probabilmente sa che mia moglie è avvocato penalista, perché appena sono entrato nel negozio mi ha raccontato quanto segue, che direi di situare all'incrocio fra Easton Ellis e Ionesco. Alcuni giorni fa una donna elegante, sui cinquant'anni, gli ha portato una bellissima camicia di seta sporca di sangue, e lo ha pregato di rimuovere le macchie. La camicia è stata lavata, ma poiché le macchie di sangue sono molto difficili da togliere, il capo si è rovinato. Quando è tornata a ritirare la camicia, la signora ha dato in escandescenze. Ha detto che era una camicia di qualità, che ormai era da buttare e che sarebbe andata subito a denunciarli. Poi è uscita, sbattendo la porta. Un'ora dopo, una volante ha parcheggiato di fronte alla lavanderia. Ne è sceso un maresciallo dei carabinieri, il quale dopo essersi presentato ha chiesto se i termini della denuncia fossero fededegni, se cioè davvero la lavanderia avesse rovinato una preziosa camicia di seta macchiata di sugo di pomodoro. Immediatamente il figlio della titolare ha protestato che non si trattava di macchie di pomodoro, ma di grosse macchie di sangue, molto difficili da togliere. A questo punto il maresciallo, sorpreso, ha esclamato: "Ciò cambia tutto. Se le macchie erano di sangue, non siete voi a dovervi preoccupare della giustizia, ma la signora che vi ha denunciato". Poi ha fatto un piccolo inchino, ha salutato in fretta ed è uscito di corsa dal negozio.

mercoledì 28 settembre 2011

Carnage: un rovello.

Dopo aver visto il film di Polanski mi sono posto soprattutto una domanda: perché tutti i "cattivi" (il feroce avvocato difensore delle case farmaceutiche; la moglie, apparentemente conciliante e in realtà ipocrita e "peggio del marito"; il cinico gestore di un negozio di casalinghi) sono bravissimi ad argomentare la normalità - banalità - del male nonché il suo inevitabile dominio sul mondo, mentre l'unico personaggio d'emblé "positivo", quello recitato dalla Foster, balbetta, si contraddice, perde le staffe? E' un cedimento moralistico biasimare la slealtà del regista?

giovedì 15 settembre 2011

Prima di Zigmunt Bauman

Sarò ospite di Pordenonelegge. Domenica 18 settembre alle 15, nel Palazzo della Provincia di Pordenone, io e Vincent Raynaud discuteremo un po' della Gallina. Per ascoltare Bauman, invece, si dovrà aspettare fino alle 16. E' difficile per me parlare di Vincent: diciamo semplicemente che è stato lui, dopo averne letto il manoscritto, a proporre il romanzo a Jacopo De Michelis e a Marco di Marco della Marsilio. In altre parole gli devo moltissimo. Traduttore in francese di Saviano, Garlini, Vinci, Vasta e di molti altri scrittori italiani e spagnoli, Vincent è anche consulente di Gallimard.

lunedì 12 settembre 2011

Mazzantini vs Waits. Copertine uguali o diverse?

Riconoscenza

Sono infinitamente riconoscente all'elusivo blogger del "Diario di uno scrittore precario. Scrittore, editor, giornalista, precario, ghost writer, professore, affamato, eccetera. Soprattutto eccetera". Mentre le prime recensioni faticavano ad arrivare, lui senza il minimo imput da parte dell'industria culturale pescava La gallina in libreria e iniziava a scriverne sul suo blog dimostrando competenza, acume critico e generosità verso l'autore. Credo che solo chi ha scritto un libro ed attende per settimane le reazioni dei competenti conosca l'atroce sensazione di apnea che si accompagna a questa condizione. Grazie, caro scrittore precario, per avermi fatto respirare: i doni degli sconosciuti, sempre disinteressati, non si dimenticano facilmente. Ecco il link ai post sulla Gallina: http://diariodiunoscrittore.blogspot.com/search/label/La%20gallina

domenica 11 settembre 2011

A scanso di equivoci, lo stile è (segue definizione).

A scanso di equivoci, lo stile non è la scorciatoia per raggiungere l'eccellenza senza pagare pegno alla vita e agli uomini, ma ciò che della statura morale di un "autore" filtra in un medium; per esempio nel modo di vestire, scrivere, parlare, comporre musica, agire. Ed è appunto per questo che si scrivono tanti libri cattivi: perché manca, prima del talento e dello studio, la statura morale.

sabato 3 settembre 2011

Per farla finita con la distinzione tra realtà e finzione. Osservazioni su un saggio di Filippo La Porta

Qualche giorno fa ho finito di leggere il saggio Meno letteratura, per favore! di Filippo La Porta (Bollati Boringhieri, 138 pagg., 11 euro). Uscito nell'ottobre del 2010, il volumetto mette il dito sulla piaga per ciò che riguarda l'inflazione di storie che caratterizza la nostra epoca. Un paio di anni fa, tanto per fare un esempio, Le monde littéraire - il supplemento letterario del quotidiano francese - riportava in prima pagina una fotografia in grado di erodere il residuo romanticismo legato alla professione di storyteller: centinaia di sceneggiatori, scrittori ed altri "addetti al settore delle storie" sfilavano negli USA in occasione di uno sciopero della categoria. A giudicare dalla foto, erano più numerosi dei metalmeccanici italiani. Insomma, la nostra società richiede storie in quantità enormi, sicché ha fatto bene La Porta a dedicarvi un suo scritto. Intanto, Meno letteratura è un'agile carrellata sulla recente narrativa italiana, con definizioni critiche che ho trovato spesso sorprendenti e perfette: (per esempio la definizione riuscitissima dello stile di Rosa Matteucci come "cimiteriale-picaresco"). Ma per tornare alle questioni evocate dal titolo, dirò subito che il saggio di La Porta, all'inizio, mi ha allarmato: la copertina accennava alla letteratura come "infiorettamento", come l'operazione di impreziosire, come "elegante addomesticamento di tutto ciò che è sgradevole". In altre parole, sembrava quasi che per l'autore la letteratura coincidesse con ciò che Derida chiamava "supplemento", come l'aggiunta o la sostituzione di qualcosa che c'è già, come elemento accessorio. “Meno storie” significherebbe allora meno arzigogoli, meno ricami, in una parola meno “retorica”? Per fortuna, nelle pagine successive, non solo La Porta abbandonava questa visione della letteratura, ma proponeva di leggere il rapporto tra realtà e finzione in una forma del tutto diversa, e che mi sembra estremamente produttiva. Vorrei ora raccontare una storia terribile, ma molto eloquente. Qualche anno fa, ho tradotto dal francese per la casa editrice di Internazionale, Fusi Orari, l'autobiografia dell'editore Maspero, Les abeilles et la guepe. In un passo del libro si raccontava di ciò che accadde alla madre dell'autore quando, alla fine della Seconda guerra mondiale, la donna tornò dal campo di concentramento. Provò a raccontare a parenti e amici l'orrore vissuto, ma nessuno riusciva a comprendere davvero cosa fosse successo. Non è che non le credessero: semplicemente non riuscivano a misurare le dimensioni dell'atrocità. Una zia, evidentemente irritata dai dettagli dell’inenarrabile racconto, l’apostrofò: "Cosa credi, anche noi durante la guerra abbiamo sofferto! Per esempio abbiamo dovuto fare a meno dell'olio per tutto l'inverno…" Sarebbe facile spiegare questa spaventosa "sordità" con Primo Levi o con Lyotard, e ammettere che l'Olocausto sia “irrappresentabile”. Ma forse la spiegazione è più semplice: la realtà, se non si sa raccontare, nemmeno esiste. Bisogna (per una necessità quasi biologica) essere bravi affabulatori, altrimenti anche il fatto più bruto, anche l'evento che meno sembra aver bisogno di essere interpretato, affonda, sbiadisce e diventa un nulla. Non è vero che la retorica (la famosa carrellata sul campo di concentramento, di cui Rivette accusava il regista Pontecorvo in De l’abjection) è "abietta": abietto, o quantomeno scientificamente fuorviante, è illudersi che la realtà "parli da sé", che non abbia bisogno dell'arte degli uomini per essere "detta". Eliminare la retorica è invece un crimine, perché vorrebbe dire abbandonare i "fatti" a se stessi; il che, lungi dal renderli più eloquenti, equivarrebbe ad una reductio ad silentium. Ho dunque continuato a leggere il saggio di La Porta, e questo finché non ho letto che "la realtà ha bisogno di essere messa in scena. Altrimenti resta opaca, inanimata. E per metterla in scena occorre non tanto infiorettarla ... quanto padroneggiare le tecniche e le strategie della narrazione.” Ecco, vorrei partire da questa tesi, espressa con la massima chiarezza in Meno letteratura, per radicalizzarla e proporre una ristrutturazione del rapporto fra realtà e letteratura che fa a meno del concetto di finzione. Noi, di solito, opponiamo realtà e finzione; inoltre distinguiamo due tipi di letteratura: quella realistica, che farebbe parte della realtà, e quella fantastica o "d'invenzione", che ovviamente farebbe parte della finzione. E quando ci troviamo di fronte ad opere che non si sa dove collocare sentiamo il bisogno di creare delle categorie ibride, come la "faction", il new journalism o il buon vecchio romanzo storico. Ora, ho l'impressione che se vogliamo denunciare l'abuso di letteratura (quello che si potrebbe battezzare l’"imperialismo narratologico") è meglio percorrere un'altra strada: ipotizzare che esista un territorio comune all’esperienza e alla letteratura, e che su tale “regione” si concentri pour cause l’interesse dell’industria culturale perché si tratta di una regione che ognuno di noi non può permettersi di ignorare, perché dalla capacità che noi abbiamo di padroneggiarne le regole derivano le nostre possibilità di sopravvivenza. In altre parole, c’è una regione dell'esperienza che il romanzo mima perfettamente, e che deve essere considerata come né puramente finzionale né puramente reale, perché è indifferente alla distinzione tra reale e finzionale. Mi spiego meglio: esiste letteratura non romanzesca, per esempio la poesia; e grazie al cielo esiste tanta realtà non romanzesca (per esempio farsi un caffè non ha niente di romanzesco). Cosa chiede, invece, l'industria culturale al letterato? Chiede ciò che La Porta chiama "strategia della narrazione". Ma questa strategia è la stessa che ognuno di noi mette in opera nell'azione. Non è strategia della narrazione, è strategia e basta, cioè azione. Si agisce per afferrare qualcosa (un oggetto o un sapere, direbbero i semiologi); per afferrare qualcosa c'è bisogno di trovare degli strumenti (conoscitivi o reali); e poiché le cose che valgono sono rare, è inevitabile che queste azioni siano rese ardue da competitori, da concorrenti, da chi si oppone al nostro successo perché anche lui vorrebbe raggiungerlo. Ecco, questa è la vera dittatura della narrativa: leggere la realtà sempre sotto forma di conflitto, di obiettivi da raggiungere, di bersagli da centrare. Saviano a questo punto potrebbe essere considerato un esempio negativo non già perché ha confuso la realtà tragica con la finzione narrativa (il famoso telefonino sulla bara della bambina uccisa in una sparatoria, episodio probabilmente inventato), cioè perché Gomorra vuole appartenere al genere “romanzo” ma poi è anche cronaca; è un esempio negativo perché l’autore ha “reso” il fenomeno camorristico sotto una forma esclusivamente narrativa, grazie ad una focalizzazione esclusiva sul conflitto, sul bozzetto, sull'aneddotica e la ricerca del sensazionale; non a caso le pagine più celebri di Gomorra sembrano composte da leggende metropolitane vere…). Questo forse è l'errore, naturalmente in buona fede, di Saviano. Il pericolo di un’espansione indefinita della letteratura nel mondo, quasi una colonizzazione della realtà da parte del narrativo, non coincide allora con il rischio di introdurre la menzogna dove dovrebbe esserci cronaca "fotografica" e magari Storia, ma del privilegiare, della realtà, solo quegli aspetti che sono immediatamente romanzeschi, perché appartengono a quella regione in cui l’opposizione fra realtà e finzione non vale. Parafrasando una celebre affermazione di Gadda, romanzesco è il mondo, non la letteratura; più precisamente, esiste un piano che neutralizza la distinzione fra realtà e finzione, perché la sue essenza non è né reale né finzionale.

venerdì 2 settembre 2011

La verità, vi prego, su Canale Mussolini

Quel che non va in Canale Mussolini è che la voce narrante (che assume la forma logora del "narratore inattendibile") sembra all'inizio digiuna di qualsiasi complicazione intellettuale, e dunque legittimata a lasciarsi incantare dalla retorica del Fascismo. Noi la perdoniamo, come si perdona colui che non ha gli strumenti per difendersi dal male e lo moltiplica. A mano a mano che il romanzo procede, però, la stessa voce si rivela tutt'altro che ingenua, ed anzi piuttosto a suo agio con il mondo delle idee. A questo punto il romanzo crolla; non solo in quanto viene meno un aspetto essenziale del rapporto fra scrittore e lettore, cioè la fiducia, ma perché nell'attimo in cui il narratore muta di status intellettuale noi ci aspetteremmo da lui qualcosa di molto diverso dalla connivenza: per esempio degli atti di smascheramento.

martedì 23 agosto 2011

Si dice farsa, si dice burla, ma è molto peggio.

Nunzio Festa ha scritto una bella, dettagliata e simpatetica recensione della Gallina sul blog di Stefano Donno (sottotitolo: "Il pop non è un'esaltazione del Nulla!"). Ecco il link e una copia del testo per i pigri. Grazie, Nunzio.

http://stefanodonno.blogspot.com/2011/08/la-gallina-di-fabrizio-ottaviani.html


Di Nunzio Festa
Gli accadimenti di “La gallina”, romanzo d'esordio del critico Fabrizio Ottaviani, succedono quasi interamente in un appartamento. Seppure non è facile comprendere perché questi dovrebbero essere per forza d'una casa dell'Europa del Nord. E le scene decisive, per così dire, sono addirittura poche. Ma grazie a un 'linguaggio' molto teatrale, dunque altamente, appunto, “scenico”, potremmo dire che la piccola situazione, diventata grandissimo e grandioso fuoco del romanzo, è legittimata da un approccio borghese - anzi moraviano - al piccolo mondo della borghesia, diviene quasi una commedia di Eduardo senza, in un certo modo, la commedia degli equivochi eppure con l'incarnirsi dell'equivoco nella macchinata commedia. Il tutto, poi, sorretto da un linguaggio compiuto e attrezzato a dovere con una sfilza di dialoghi più che attenti a fare da compagnia illustre al montaggio lessicale. Il momento temporale nulla conta. Quello che conta è una vecchia signora vestita proprio comune uno spaventapasseri che riesce, letteralmente, a piazzare nella casa dei De Giorgi: una gallina viva anzi vivissima e agitata alquanto. I padroni, dotati di cameriera cuoca e maggiordomo un po' scemo o stonato, sono ricchissimi e in città hanno (una) posizione di grido. Che dovrebbero sempre proteggere. Mentre la gallina produce una serie di conseguenze che stravolgono lo status quo. A parte, in effetti, che davvero non si scoprirà facilmente chi cavolo ha portato e, soprattutto, per quale ragione la gallinaccia in casa De Giorni, accadono vicende che i personaggi non sempre sono capaci di gestire. Tranne alcuni di questi. Che qui, va precisato, potremmo persino parlare d'eroi e antieroi. Oppure, più tranquillamente, di buoni e cattivi. Però queste vite di facoltosi sono cattive cattive nonché animate da sotterfugi su sotterfugi. Più volte s'usa, per il romanzo d'Ottaviani, la parola “farsa” quando non il termine puntuale “burla”. Propriamente, per esser sinceri fino all'osso disossato, qui è molto peggio di questo. Ottaviani, infatti, con uno sguardo glaciale, freddo e distante in ogni instante, privandosi d'umanità come i narrati, riesce a descrivere quando l'umanità vien a mancare. Inizialmente, pare che del libro ci s'appassioni poco. Mentre dopo le primissime pagine già si devono necessariamente studiare e attendere le mosse della gallina magica. Un libro di mirabile valore.

lunedì 22 agosto 2011

Recensioni private 3. Choukhadarian


La gallina non incontra fortuna particolare, nella letteratura italiana. Si trova certo una famosa novella di Boccaccio, la ricorda Italo Calvino in un racconto non dei più conosciuti (La gallina di reparto, del 1958: e varrà la pena rileggerlo), in Eros e Priapo Carlo Emilio Gadda chiama galline le donne che non sono vacche o troie. Qualche appassionato ricorderà infine le Galline pensierose di Luigi Malerba: ma sono pochi, e non usano strepitare (come galline, appunto). Ci voleva La Gallina, primo romanzo di Fabrizio Ottaviani, 41 anni, critico militante per il Giornale e ricercatore in filosofia del linguaggio perché l'incolpevole bestiola ottenesse il riconoscimento meritato. Le 237 pagine del romanzo si aprono, infatti, con la consegna di una galllina al maggiordomo di una coppia alto borghese, Elena e Massimiliano. Adelmo, che riceve la sorpresa da una vecchia molto male in arnese, non sa bene che farne; e comincia a fare pasticci, rivelando da subito una totale incompatibilità di carattere con Irene, la cuoca. Se prima bisogna nascondere la gallina, poi rimediare ai danni che, inevitabilmente, fa in casa, c'è poi da raccontare ai padroni di casa come ha fatto a entrare in casa e che cosa ci fa. Il romanzo racconta dunque una vicenda tutta giocata su registri tra iperbolico e grottesco, in una modalità piuttosto lontane dalla tradizione narrativa italiana. Ottaviani deve conoscere bene Jonathan Swift, ma anche certo romanzo russo dell'Ottocento e, perché no, i narratori libertini francesi del secondo Seicento. Nel suo racconto c'è infatti l'irriverenza, il gusto per la battuta e una specie di sarcasmo tragico sul mondo e le cose. L'umorismo di Fabrizio Ottaviani è certo di fatti, ma anche di parole e di stile (l'uso disinvolto del punto e virgola!); non che, bene inteso, nell'indagine sui personaggi in iscena. Se questa storia di una gallina e molti uomini ha anche un risvolto morale, lo decida il lettore. Qui se ne suggerisce la lettura, accompagnata magari dal confronto con certe pagine ancora illuminanti dell'Estetica dell'osceno di Guido Almansi

venerdì 19 agosto 2011

Benissimo

Mi dedico a molti lavori contemporaneamente. E come accade sempre in questi casi - quando ci si disperde invece di concentrarsi su una cosa sola - li faccio tutti benissimo.

mercoledì 17 agosto 2011

Recensioni private 2. Franco Cordelli


Caro Fabrizio,

ho appena finito di leggere La Gallina. Mi sembra un romanzo notevolissimo, per una quantità di ragioni. Dominante è la precisione linguistica, ovvero stilistica - che dire insolita nella nostra attuale letteratura è poco. Ci si addentra con calma beffarda in un racconto d'altri tempi, dove di continuo l'allegoria si satura di elementi realistici o, viceversa, il dato (l'effetto) di realtà trascolora in un fatto allegorico. Ciò che più sorprende è però come questi due registri si sostanzino d'uno humor grottesco, ai limiti del farsesco, della commedia di costume, di tratti che possono oscillare tra Feydeau e Ferreri. Cito deliberatamente due autori così lontani fra loro per indicare l'impossibilità di definire in una tradizione riconoscibile in modo troppo stretto il tono della narrazione. E' quanto di più sorprendente ci dà La gallina. Si tratta in definitiva di un "apologo" sul sentimento di estraneità che insidia la vita di chiunque, o che può all'improvviso insidiarla e sconvolgerla. Non escluderei che tale a-temporalità sia scaturita da un momento (da un tempo storico) ben determinato, e riconoscibile, il nostro, italiano.

Un caro saluto, Franco.

Roma, 16.5.2011

lunedì 15 agosto 2011

Il figlio di Joe Marrazzo

Ho appena finito di leggere su Repubblica la bella intervista di Concita De Gregorio a Piero Marrazzo, che ha confermato alcune idee che mi ero fatto del “caso”. Marrazzo si dimostra ancora una volta succube di un tipo di ipocrisia che definirei opportunistica e dunque ambientale. Ammette di aver fatto quello che ha fatto, ma con una serie di attenuanti. Sì, ha usato la macchina di stato: ma ha parcheggiato lontano; sì, gli è capitato di assumere droga, ma non quel giorno; sì, andava a letto con un travestito e per giunta pagandolo, ma non per il brivido della trasgressione, bensì per fruire della femminilità del travestito che sarebbe, a suo dire, più intensa e consolatoria di quella delle donne. E questa sarebbe, chissà perchè, una sua “debolezza”. L’impressione è che Marrazzo si avvantaggi degli aspetti assolutori concessi dalla cultura progressista, che in privato fa sempre comodo a tutti, ma non abbia nessuna intenzione di tagliare i ponti con la cultura piccolo-borghese cui appartiene la quasi totalità degli elettori e alla quale Marrazzo deve il suo successo passato, nonché le risibili chances di un suo reintegro futuro nei salotti della politica. Basta pensare alla buffonata del ritiro nel monastero di Montecassino, che in quanto a vagheggiamento medievale fa il paio con il bisogno “riposante” di una donna dotata di “una capacità di accudimento straordinaria”. Come tutti i politici, Marrazzo sa bene che si possono anche violare le regole della morale, ma ad un patto: che si resti all’interno dello schema “desiderato in quanto vietato”, uno schema formulato da Frazer, ripreso da Freud ed infine denunciato nella sua matrice liberticida da Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo. In tutta l’intervista Marrazzo ammette ed ammette, ma connota le sue ammissioni sempre dal verso “giusto”, cioè sbagliato: se sta “sotto bastone” non è certo il manganello dei poliziotti corrotti che lo ricattavano, ma quello della morale fantasmaticamente gretta che non si cessa di immaginare come intrinseca alla società civile. Alcuni passi dell’intervista sono strepitosi. Per esempio quando l’ex-governatore della regione Lazio dichiara che quella sera “non aveva esattamente un appuntamento”, e che se il trans Brenda fosse stato “occupato” con un altro cliente sarebbe andato via, mi hanno ricordato quel che accadeva in Francia durante il Secondo Impero: Napoleone III andava al bordello, ma se sulle scale incontrava qualcuno che era arrivato prima di lui, qualcuno che aveva la precedenza, come un qualsiasi privato cittadino faceva il gesto di cedergli il passo. Ma forse il tratto più patetico e recidivante riguarda una singolarità, per così dire, statistica: “Nel corso di questa intervista” – scrive De Gregorio – Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte: Perchè io sono il figlio di Joe Marrazzo”. Refrain stonato, fumettistico, ma soprattutto, ancora una volta, manipolatorio. Piero vuole forse dire che, in quanto figlio di un grand’uomo, ha il dovere di rinascere come la Fenice e di tornare a coincidere con un positivo modello transgenerazionale? In realtà, è esattamente il contrario. Dopo quello che è successo, e se manteniamo come ideologia di riferimento quella che Piero, pour cause, vuole tenere al caldo, egli non solo non è più culturalmente il figlio di suo padre, ma sottopone ad una feroce diminutio la figura paterna, che appare o come un cattivo educatore, o come uno specchio della corruzione morale del figlio. Paradossalmente, per restare figlio di suo padre e per difenderne la memoria Marrazzo avrebbe dovuto dire che non si è pentito assolutamente di nulla. Ebbene sì, andava a travestiti, si drogava ed usava il suo ruolo pubblico come un viceré spagnolo. E di ciò, caro papà, si può menar vanto.

domenica 14 agosto 2011

Recensioni private 1. Ferruccio Parazzoli

Milano, 8/5/011
Caro Ottaviani,
La Sua Gallina - che sto leggendo - è semplicemente deliziosa e perversa. Come le è venuta in mente un'idea del genere? Mi fa venire in mente certi raccontini dei grandi Russi che, senza preavviso, si presentano sbeffeggianti e pericolosi. Ha presente, ad esempio, l'impensabile "Coccodrillo" di Dostoevskij? E' la dimostrazione che basta azionare uno scambio di binario per deragliare il ciuf-ciuf della narrativa italica. Non ci si guadagna molto, ma è pur sempre una soddisfazione. Cordialmente,

Ferruccio Parazzoli

venerdì 12 agosto 2011

Mai vendere l'anima al diavolo

Questo è un apologo.
Conosco M.C. nel 1999, durante il dottorato, si occupa della filosofia del linguaggio di Hegel. E' uno studioso di tutto rispetto, inoltre è davvero affabile e alle feste ha un modo stranissimo ma irresistibile di ballare. Poi non lo vedo per qualche mese, finché un giorno non si fa vivo con una mail. Dopo il dottorato ha frequentato un corso di sceneggiatura tenuto da Paolo Virzì, ed ha già buttato giù un trattamento. Gli chiedo di mandarmelo, visto che je me pique di non poca esperienza nel campo, ma quando lo leggo resto allibito. Non sembra uscito dalla penna di un filosofo del linguaggio: il testo, se ricordo bene, è una commediola in cui si parla di un travestito immigrato che vive a Bari e riesce a farsi accettare dalla "comunità" aiutandoli a coltivare marjuhana. Naturalmente gli rispondo subito con una mail colma di stupore, prima che di delusione. Lui, educatamente, accetta le mie troppo ruvide critiche, ma dichiara che spera comunque di riuscire a vendere la sceneggiatura.
Circa tre anni dopo lo incontro per caso al Lido di Venezia, dove eravamo entrambi per la mostra del cinema. Un po' imbarazzato, ma giustamente orgoglioso, mi rivela che la sceneggiatura che io avevo maltrattato aveva vinto il premio Solinas. Mi congratulo: in fondo ognuno deve trovare la sua strada ed evidentemente la commedia brillante era nelle sue corde.
Passano altri anni, siamo arrivati al 2010. M.C. è passato dalla sceneggiatura alla regia. Ha girato un film, un buon film, fra il drammatico e uno "scanzonato" affabile come affabile è lui, e comunque è un film che vale più della media dei film italiani. Lo vedo all'arena Sacher, scelto da Moretti per la rassegna in cui il regista di Bianca presenta lungometraggi ingiustamente quasi passati sotto silenzio. Dopo la proiezione M.C. risponde alle domande del publico. E' ancora evidentemente turbato da ciò che è successo: il film è stato distribuito poco, male, ed è stato tolto dalle sale dopo pochi giorni.
Morale: non sarebbe stato meglio essere coerenti fin dall'inizio? Vendere l'anima al diavolo non è servito, e tentare di riacquistarne delle porzioni in un secondo momento è servito ancora di meno.

domenica 31 luglio 2011

Recensioni pubbliche/1 - A piè pari

Chi volesse controllare cosa si è scritto sulla Gallina su quotidiani ed ebdomadari, può saltare a piè pari  sul sito della Marsilio. Contiene i link a quattro recensioni: di Alberto Bevilacqua (TV Sorrisi e canzoni, hélas!), Roberto Barbolini (Panorama), Massimo Onofri (Avvenire) e Daniele Abbiati (Il giornale).


http://www.marsilioeditori.it/catalogo/libro/3170899-la-gallina

Prossimamente aggiungerò stralci da lettere private (ma non compromettenti) di altre muse.

Cenerentola

Segnalo che il 5 agosto, in occasione della seconda edizione del "Festival delle storie", sarò a Picinisco per presentare all'ora di Cenerentola (cioè a mezzanotte) gli ultimi romanzi di Marino Magliani, Alessio Torino e Gaetano Savatteri. Il giorno dopo, mutati i panni, Igor Traboni presenterà alle 21 La gallina a Vicalvi. Assieme a me gli amici Giorgio Nisini  e Gianfranco Calligarich.

giovedì 21 luglio 2011

Tinello

I parlamentari inquisiti, costretti a porgere le mani alle manette, dichiarano all'aula che, alla fine, riusciranno a dimostrare ai loro figli che sono innocenti. Ai loro figli, non al Paese. Come in certi casi di epilessia, in cui per qualche istante ci si crede "altrove". Parlano nel luogo di massima "pubblicità" possibile, ma mentalmente non sono mai usciti dal tinello di casa.

mercoledì 20 luglio 2011

Banane

Sulla punta d'ogni banana/giace il cadavere d'un insetto (Malerba, Il serpente).
Oggi, a 42 anni suonati, per la prima volta mangio una banana. Pare faccia bene all'ulcera, che ho preso e che sto curando.

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