mercoledì 12 febbraio 2020

L'orpello dell'arte





Qualche anno fa, la prima pagina del supplemento letterario di un noto quotidiano francese riportava un’immagine sorprendente. Alcune migliaia di lavoratori in sciopero sfilavano lungo le strade di una grande città americana. Si scorgevano gli striscioni, le trombette, si intuivano i canti e gli slogan. Lo stupore arrivava con la didascalia: non erano metalmeccanici, erano impiegati del settore della narrazione. Una legione di sceneggiatori, romanzieri senza nome, inventori di storie per fumetti e serie televisive. Sembravano involontariamente confermare le tesi della cosiddetta biopoetica, la teoria secondo cui la migliore definizione dell’essere umano non è homo sapiens sapiens – il nostro pianeta ridonda di società che ignorano la scrittura, il calcolo avanzato, la razionalizzazione spinta – ma homo narrans. Visto che, a quanto pare, siamo creature che hanno bisogno di storie come di aria per respirare e acqua per dissetarsi, l’industria culturale offre una quantità enorme di racconti. Il problema di questo modo di intendere le cose è che la letteratura guadagna qualcosa – le storie smettono di essere un hobby cui ci si dedica nel tempo libero e diventano una necessità imprescindibile – ma perde la possibilità di valere come una palingenesi. Quando Alberto Arbasino chiese a Pierre Klossowski perché si scrive, l’autore del Bafometto rispose che era un atto di libertà in un contesto di folklore. Ma si può andare oltre e dire che la letteratura è uno strumento di resurrezione: come da sempre sostiene Andrea Caterini e come viene ribadito nel recente Romanzi e paesaggi, (Castelvecchi, 288 pagg., 22 euro). Si tratta di una raccolta di interventi, saggi e recensioni, molte delle quali apparse una prima volta sulle pagine del Giornale. Intellettuale vorace e appassionato, Caterini esclude risolutamente dal suo orizzonte la romanzeria di mestiere, alla quale non dedica un rigo, e quando sfiora autori (per esempio la Némirowsky) in sospetto di furbizia e con l’aggravante della bravura, una bravura inutile e che, cessata l’eco dell’applauso, lascia svuotati, lo fa solo per sottolineare il costo esorbitante della superficialità. Meglio sorvolare, poi, per carità di patria, su cosa pensa degli scrittori italiani più apprezzati e popolari, la cui lista è del resto facilmente reperibile visto che coincide con il palmarès dei premi più importanti, dallo Strega in giù.
Naturalmente se la letteratura è la specie di un genere che rassomiglia a una religione millenarista, promessa utopica d’evasione dalla vita banale, la tendenza sarà a non perdere tempo e a occuparsi di temi abissali: l'io, la realtà, la verità. Romanzi e paesaggi si apre con una disamina del Tractatus di Wittgenstein, l’opera più mistica del grande filosofo viennese, e anche in seguito non abbandona il gusto per la speculazione, a costo di dissotterrare il racconto più filosofico di Jerôme (sì, quello di Tre uomini in barca), di isolare la filigrana in ultima istanza metafisica del mondano Proust, cui sono dedicate pagine audaci e perfettamente convincenti o di ridurre all’osso, in questo caso all’opposizione fra “legge del mondo” e “sublime” quell’anima bramosa di assoluto che fu Malcolm Lowrie. Attenzione però a non cadere in un equivoco: anche se del romanziere si sollecita la risposta a un problema filosofico, esistenziale o morale Caterini è troppo intelligente per non sapere che qui, davanti ai piedi del critico, attende una trappola. Già Aristotele osservò con qualche perfidia che una tragedia può discutere argomenti importanti (per esempio la schiavitù, trattata con spregiudicatezza dai personaggi di Euripide) e tuttavia mancare di ottenere l’effetto drammatico. Il critico non può scambiare un romanzo per una complessa allegoria, sciolta la quale la tesi in esso celata viene esposta senza l’orpello dell’arte, ma deve lanciare a se stesso una sfida: quella di mostrare che il tema è inscindibile dallo stile, con il quale letteralmente fa corpo. Liberare il concetto di stile dall’ipoteca decadente e restituirlo alla sua dimensione radicalmente antropologica e, al limite, mistica: questo è il compito che Caterini si è posto e che in queste pagine viene portato a termine una quantità di volte, si tratti di enucleare le elusive strutture dei romanzi di Franco Cordelli, di sviscerare le ossessioni di Francesco Permunian o di ricostruire il cosmo morale di uno scrittore amato come Paolo Del Colle.
Si è parlato di resurrezione, e occorre precisare che questa parola non deve essere intesa in senso apocalittico. Per citare un passo molto eloquente su Proust: “questa resurrezione non potrà che essere la resurrezione di un Lazzaro e mai quella di un Cristo.” E a proposito di apocalisse e di apocalittici: la raccolta contiene anche alcuni interventi polemici o per meglio dire inattuali (nel senso di Nietzsche) uno dei quali si apre con una frase provocatoria, “La mia generazione non esiste”. Sarà vero? Dopo aver chiuso il volume si ha l’impressione che invece esista, e goda di buona salute.