Qualche
anno fa, la prima pagina del supplemento letterario di un noto
quotidiano francese riportava un’immagine sorprendente. Alcune
migliaia di lavoratori in sciopero sfilavano lungo le strade di una
grande città americana. Si scorgevano gli striscioni, le trombette,
si intuivano i canti e gli slogan. Lo stupore arrivava con la
didascalia: non erano metalmeccanici, erano impiegati del settore
della narrazione. Una legione di sceneggiatori, romanzieri senza
nome, inventori di storie per fumetti e serie televisive. Sembravano
involontariamente confermare le tesi della cosiddetta biopoetica, la
teoria secondo cui la migliore definizione dell’essere umano non è
homo
sapiens sapiens
– il nostro pianeta ridonda di società che ignorano la scrittura,
il calcolo avanzato, la razionalizzazione spinta – ma homo
narrans.
Visto che, a quanto pare, siamo creature che hanno bisogno di storie
come di aria per respirare e acqua per dissetarsi, l’industria
culturale offre una quantità enorme di racconti. Il problema di
questo modo di intendere le cose è che la letteratura guadagna
qualcosa – le storie smettono di essere un hobby
cui
ci si dedica nel tempo libero e diventano una necessità
imprescindibile – ma perde la possibilità di valere come una
palingenesi. Quando Alberto Arbasino chiese a Pierre Klossowski
perché si scrive, l’autore del Bafometto
rispose
che era un atto di libertà in un contesto di folklore. Ma si può
andare oltre e dire che la letteratura è uno strumento di
resurrezione: come da sempre sostiene Andrea Caterini e come viene
ribadito nel recente Romanzi
e paesaggi,
(Castelvecchi, 288 pagg., 22 euro). Si tratta di una raccolta di
interventi, saggi e recensioni, molte delle quali apparse una prima
volta sulle pagine del Giornale.
Intellettuale vorace e appassionato, Caterini esclude risolutamente
dal suo orizzonte la romanzeria di mestiere, alla quale non dedica un
rigo, e quando sfiora autori (per esempio la Némirowsky) in sospetto
di furbizia e con l’aggravante della bravura, una bravura inutile e
che, cessata l’eco dell’applauso, lascia svuotati, lo fa solo per
sottolineare il costo esorbitante della superficialità. Meglio
sorvolare, poi, per carità di patria, su cosa pensa degli scrittori
italiani più apprezzati e popolari, la cui lista è del resto
facilmente reperibile visto che coincide con il palmarès
dei
premi più importanti, dallo Strega in giù.
Naturalmente
se la letteratura
è la specie di un genere che rassomiglia a una religione
millenarista, promessa utopica d’evasione dalla vita banale, la
tendenza sarà a non perdere tempo e a occuparsi di temi abissali:
l'io, la realtà, la verità. Romanzi
e paesaggi si
apre con una disamina del Tractatus
di
Wittgenstein, l’opera più mistica del grande filosofo viennese, e
anche in seguito non abbandona il gusto per la speculazione, a costo
di dissotterrare il racconto più filosofico di Jerôme (sì, quello
di Tre
uomini in barca),
di isolare la filigrana in ultima istanza metafisica del mondano
Proust, cui sono dedicate pagine audaci e perfettamente convincenti o
di ridurre all’osso, in questo caso all’opposizione fra “legge
del mondo” e “sublime” quell’anima bramosa di assoluto che fu
Malcolm Lowrie. Attenzione però a non cadere in un equivoco: anche
se del romanziere si sollecita la risposta a un problema filosofico,
esistenziale o morale Caterini è troppo intelligente per non sapere
che qui, davanti ai piedi del critico, attende una trappola. Già
Aristotele osservò con qualche
perfidia
che una tragedia può discutere argomenti importanti (per esempio la
schiavitù, trattata con spregiudicatezza dai personaggi di Euripide)
e tuttavia mancare di ottenere l’effetto drammatico. Il critico non
può scambiare un romanzo per una complessa allegoria, sciolta la
quale la tesi in esso celata viene esposta senza l’orpello
dell’arte, ma deve lanciare a se stesso una sfida: quella di
mostrare che il tema è inscindibile dallo stile, con il quale
letteralmente fa corpo. Liberare il concetto di stile dall’ipoteca
decadente e restituirlo alla sua dimensione radicalmente
antropologica e, al limite, mistica: questo è il compito che
Caterini si è posto e che in queste pagine viene portato a termine
una quantità di volte, si tratti di enucleare le elusive strutture
dei romanzi di Franco Cordelli, di sviscerare le ossessioni di
Francesco Permunian o di ricostruire il cosmo morale di uno scrittore
amato come Paolo Del Colle.
Si è
parlato di resurrezione, e occorre precisare che questa parola non
deve essere intesa in senso apocalittico. Per citare un passo molto
eloquente su Proust: “questa resurrezione non potrà che essere la
resurrezione di un Lazzaro e mai quella di un Cristo.” E a
proposito di apocalisse e di apocalittici: la raccolta contiene anche
alcuni interventi polemici o per meglio dire inattuali (nel senso di
Nietzsche) uno dei quali si apre con una frase provocatoria,
“La mia generazione non esiste”. Sarà vero?
Dopo
aver chiuso il volume si ha l’impressione che invece esista, e goda
di buona salute.