martedì 23 agosto 2011

Si dice farsa, si dice burla, ma è molto peggio.

Nunzio Festa ha scritto una bella, dettagliata e simpatetica recensione della Gallina sul blog di Stefano Donno (sottotitolo: "Il pop non è un'esaltazione del Nulla!"). Ecco il link e una copia del testo per i pigri. Grazie, Nunzio.

http://stefanodonno.blogspot.com/2011/08/la-gallina-di-fabrizio-ottaviani.html


Di Nunzio Festa
Gli accadimenti di “La gallina”, romanzo d'esordio del critico Fabrizio Ottaviani, succedono quasi interamente in un appartamento. Seppure non è facile comprendere perché questi dovrebbero essere per forza d'una casa dell'Europa del Nord. E le scene decisive, per così dire, sono addirittura poche. Ma grazie a un 'linguaggio' molto teatrale, dunque altamente, appunto, “scenico”, potremmo dire che la piccola situazione, diventata grandissimo e grandioso fuoco del romanzo, è legittimata da un approccio borghese - anzi moraviano - al piccolo mondo della borghesia, diviene quasi una commedia di Eduardo senza, in un certo modo, la commedia degli equivochi eppure con l'incarnirsi dell'equivoco nella macchinata commedia. Il tutto, poi, sorretto da un linguaggio compiuto e attrezzato a dovere con una sfilza di dialoghi più che attenti a fare da compagnia illustre al montaggio lessicale. Il momento temporale nulla conta. Quello che conta è una vecchia signora vestita proprio comune uno spaventapasseri che riesce, letteralmente, a piazzare nella casa dei De Giorgi: una gallina viva anzi vivissima e agitata alquanto. I padroni, dotati di cameriera cuoca e maggiordomo un po' scemo o stonato, sono ricchissimi e in città hanno (una) posizione di grido. Che dovrebbero sempre proteggere. Mentre la gallina produce una serie di conseguenze che stravolgono lo status quo. A parte, in effetti, che davvero non si scoprirà facilmente chi cavolo ha portato e, soprattutto, per quale ragione la gallinaccia in casa De Giorni, accadono vicende che i personaggi non sempre sono capaci di gestire. Tranne alcuni di questi. Che qui, va precisato, potremmo persino parlare d'eroi e antieroi. Oppure, più tranquillamente, di buoni e cattivi. Però queste vite di facoltosi sono cattive cattive nonché animate da sotterfugi su sotterfugi. Più volte s'usa, per il romanzo d'Ottaviani, la parola “farsa” quando non il termine puntuale “burla”. Propriamente, per esser sinceri fino all'osso disossato, qui è molto peggio di questo. Ottaviani, infatti, con uno sguardo glaciale, freddo e distante in ogni instante, privandosi d'umanità come i narrati, riesce a descrivere quando l'umanità vien a mancare. Inizialmente, pare che del libro ci s'appassioni poco. Mentre dopo le primissime pagine già si devono necessariamente studiare e attendere le mosse della gallina magica. Un libro di mirabile valore.

lunedì 22 agosto 2011

Recensioni private 3. Choukhadarian


La gallina non incontra fortuna particolare, nella letteratura italiana. Si trova certo una famosa novella di Boccaccio, la ricorda Italo Calvino in un racconto non dei più conosciuti (La gallina di reparto, del 1958: e varrà la pena rileggerlo), in Eros e Priapo Carlo Emilio Gadda chiama galline le donne che non sono vacche o troie. Qualche appassionato ricorderà infine le Galline pensierose di Luigi Malerba: ma sono pochi, e non usano strepitare (come galline, appunto). Ci voleva La Gallina, primo romanzo di Fabrizio Ottaviani, 41 anni, critico militante per il Giornale e ricercatore in filosofia del linguaggio perché l'incolpevole bestiola ottenesse il riconoscimento meritato. Le 237 pagine del romanzo si aprono, infatti, con la consegna di una galllina al maggiordomo di una coppia alto borghese, Elena e Massimiliano. Adelmo, che riceve la sorpresa da una vecchia molto male in arnese, non sa bene che farne; e comincia a fare pasticci, rivelando da subito una totale incompatibilità di carattere con Irene, la cuoca. Se prima bisogna nascondere la gallina, poi rimediare ai danni che, inevitabilmente, fa in casa, c'è poi da raccontare ai padroni di casa come ha fatto a entrare in casa e che cosa ci fa. Il romanzo racconta dunque una vicenda tutta giocata su registri tra iperbolico e grottesco, in una modalità piuttosto lontane dalla tradizione narrativa italiana. Ottaviani deve conoscere bene Jonathan Swift, ma anche certo romanzo russo dell'Ottocento e, perché no, i narratori libertini francesi del secondo Seicento. Nel suo racconto c'è infatti l'irriverenza, il gusto per la battuta e una specie di sarcasmo tragico sul mondo e le cose. L'umorismo di Fabrizio Ottaviani è certo di fatti, ma anche di parole e di stile (l'uso disinvolto del punto e virgola!); non che, bene inteso, nell'indagine sui personaggi in iscena. Se questa storia di una gallina e molti uomini ha anche un risvolto morale, lo decida il lettore. Qui se ne suggerisce la lettura, accompagnata magari dal confronto con certe pagine ancora illuminanti dell'Estetica dell'osceno di Guido Almansi

venerdì 19 agosto 2011

Benissimo

Mi dedico a molti lavori contemporaneamente. E come accade sempre in questi casi - quando ci si disperde invece di concentrarsi su una cosa sola - li faccio tutti benissimo.

mercoledì 17 agosto 2011

Recensioni private 2. Franco Cordelli


Caro Fabrizio,

ho appena finito di leggere La Gallina. Mi sembra un romanzo notevolissimo, per una quantità di ragioni. Dominante è la precisione linguistica, ovvero stilistica - che dire insolita nella nostra attuale letteratura è poco. Ci si addentra con calma beffarda in un racconto d'altri tempi, dove di continuo l'allegoria si satura di elementi realistici o, viceversa, il dato (l'effetto) di realtà trascolora in un fatto allegorico. Ciò che più sorprende è però come questi due registri si sostanzino d'uno humor grottesco, ai limiti del farsesco, della commedia di costume, di tratti che possono oscillare tra Feydeau e Ferreri. Cito deliberatamente due autori così lontani fra loro per indicare l'impossibilità di definire in una tradizione riconoscibile in modo troppo stretto il tono della narrazione. E' quanto di più sorprendente ci dà La gallina. Si tratta in definitiva di un "apologo" sul sentimento di estraneità che insidia la vita di chiunque, o che può all'improvviso insidiarla e sconvolgerla. Non escluderei che tale a-temporalità sia scaturita da un momento (da un tempo storico) ben determinato, e riconoscibile, il nostro, italiano.

Un caro saluto, Franco.

Roma, 16.5.2011

lunedì 15 agosto 2011

Il figlio di Joe Marrazzo

Ho appena finito di leggere su Repubblica la bella intervista di Concita De Gregorio a Piero Marrazzo, che ha confermato alcune idee che mi ero fatto del “caso”. Marrazzo si dimostra ancora una volta succube di un tipo di ipocrisia che definirei opportunistica e dunque ambientale. Ammette di aver fatto quello che ha fatto, ma con una serie di attenuanti. Sì, ha usato la macchina di stato: ma ha parcheggiato lontano; sì, gli è capitato di assumere droga, ma non quel giorno; sì, andava a letto con un travestito e per giunta pagandolo, ma non per il brivido della trasgressione, bensì per fruire della femminilità del travestito che sarebbe, a suo dire, più intensa e consolatoria di quella delle donne. E questa sarebbe, chissà perchè, una sua “debolezza”. L’impressione è che Marrazzo si avvantaggi degli aspetti assolutori concessi dalla cultura progressista, che in privato fa sempre comodo a tutti, ma non abbia nessuna intenzione di tagliare i ponti con la cultura piccolo-borghese cui appartiene la quasi totalità degli elettori e alla quale Marrazzo deve il suo successo passato, nonché le risibili chances di un suo reintegro futuro nei salotti della politica. Basta pensare alla buffonata del ritiro nel monastero di Montecassino, che in quanto a vagheggiamento medievale fa il paio con il bisogno “riposante” di una donna dotata di “una capacità di accudimento straordinaria”. Come tutti i politici, Marrazzo sa bene che si possono anche violare le regole della morale, ma ad un patto: che si resti all’interno dello schema “desiderato in quanto vietato”, uno schema formulato da Frazer, ripreso da Freud ed infine denunciato nella sua matrice liberticida da Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo. In tutta l’intervista Marrazzo ammette ed ammette, ma connota le sue ammissioni sempre dal verso “giusto”, cioè sbagliato: se sta “sotto bastone” non è certo il manganello dei poliziotti corrotti che lo ricattavano, ma quello della morale fantasmaticamente gretta che non si cessa di immaginare come intrinseca alla società civile. Alcuni passi dell’intervista sono strepitosi. Per esempio quando l’ex-governatore della regione Lazio dichiara che quella sera “non aveva esattamente un appuntamento”, e che se il trans Brenda fosse stato “occupato” con un altro cliente sarebbe andato via, mi hanno ricordato quel che accadeva in Francia durante il Secondo Impero: Napoleone III andava al bordello, ma se sulle scale incontrava qualcuno che era arrivato prima di lui, qualcuno che aveva la precedenza, come un qualsiasi privato cittadino faceva il gesto di cedergli il passo. Ma forse il tratto più patetico e recidivante riguarda una singolarità, per così dire, statistica: “Nel corso di questa intervista” – scrive De Gregorio – Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte: Perchè io sono il figlio di Joe Marrazzo”. Refrain stonato, fumettistico, ma soprattutto, ancora una volta, manipolatorio. Piero vuole forse dire che, in quanto figlio di un grand’uomo, ha il dovere di rinascere come la Fenice e di tornare a coincidere con un positivo modello transgenerazionale? In realtà, è esattamente il contrario. Dopo quello che è successo, e se manteniamo come ideologia di riferimento quella che Piero, pour cause, vuole tenere al caldo, egli non solo non è più culturalmente il figlio di suo padre, ma sottopone ad una feroce diminutio la figura paterna, che appare o come un cattivo educatore, o come uno specchio della corruzione morale del figlio. Paradossalmente, per restare figlio di suo padre e per difenderne la memoria Marrazzo avrebbe dovuto dire che non si è pentito assolutamente di nulla. Ebbene sì, andava a travestiti, si drogava ed usava il suo ruolo pubblico come un viceré spagnolo. E di ciò, caro papà, si può menar vanto.

domenica 14 agosto 2011

Recensioni private 1. Ferruccio Parazzoli

Milano, 8/5/011
Caro Ottaviani,
La Sua Gallina - che sto leggendo - è semplicemente deliziosa e perversa. Come le è venuta in mente un'idea del genere? Mi fa venire in mente certi raccontini dei grandi Russi che, senza preavviso, si presentano sbeffeggianti e pericolosi. Ha presente, ad esempio, l'impensabile "Coccodrillo" di Dostoevskij? E' la dimostrazione che basta azionare uno scambio di binario per deragliare il ciuf-ciuf della narrativa italica. Non ci si guadagna molto, ma è pur sempre una soddisfazione. Cordialmente,

Ferruccio Parazzoli

venerdì 12 agosto 2011

Mai vendere l'anima al diavolo

Questo è un apologo.
Conosco M.C. nel 1999, durante il dottorato, si occupa della filosofia del linguaggio di Hegel. E' uno studioso di tutto rispetto, inoltre è davvero affabile e alle feste ha un modo stranissimo ma irresistibile di ballare. Poi non lo vedo per qualche mese, finché un giorno non si fa vivo con una mail. Dopo il dottorato ha frequentato un corso di sceneggiatura tenuto da Paolo Virzì, ed ha già buttato giù un trattamento. Gli chiedo di mandarmelo, visto che je me pique di non poca esperienza nel campo, ma quando lo leggo resto allibito. Non sembra uscito dalla penna di un filosofo del linguaggio: il testo, se ricordo bene, è una commediola in cui si parla di un travestito immigrato che vive a Bari e riesce a farsi accettare dalla "comunità" aiutandoli a coltivare marjuhana. Naturalmente gli rispondo subito con una mail colma di stupore, prima che di delusione. Lui, educatamente, accetta le mie troppo ruvide critiche, ma dichiara che spera comunque di riuscire a vendere la sceneggiatura.
Circa tre anni dopo lo incontro per caso al Lido di Venezia, dove eravamo entrambi per la mostra del cinema. Un po' imbarazzato, ma giustamente orgoglioso, mi rivela che la sceneggiatura che io avevo maltrattato aveva vinto il premio Solinas. Mi congratulo: in fondo ognuno deve trovare la sua strada ed evidentemente la commedia brillante era nelle sue corde.
Passano altri anni, siamo arrivati al 2010. M.C. è passato dalla sceneggiatura alla regia. Ha girato un film, un buon film, fra il drammatico e uno "scanzonato" affabile come affabile è lui, e comunque è un film che vale più della media dei film italiani. Lo vedo all'arena Sacher, scelto da Moretti per la rassegna in cui il regista di Bianca presenta lungometraggi ingiustamente quasi passati sotto silenzio. Dopo la proiezione M.C. risponde alle domande del publico. E' ancora evidentemente turbato da ciò che è successo: il film è stato distribuito poco, male, ed è stato tolto dalle sale dopo pochi giorni.
Morale: non sarebbe stato meglio essere coerenti fin dall'inizio? Vendere l'anima al diavolo non è servito, e tentare di riacquistarne delle porzioni in un secondo momento è servito ancora di meno.