sabato 17 agosto 2019

Lo stesso fumo



Nelle pagine iniziali di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, un personaggio racconta la trama di un vecchio film con Peter Lorre, “Le mani di Orlac”. Orlac è un pianista che ha perduto le mani in un incidente, ma un chirurgo decide di sfidare il destino e gli innesta le mani di un assassino appena ghigliottinato. L’operazione riesce, ma qualche settimana dopo il pianista inizia a sospettare di essere l’attore principale di alcuni omicidi, che avrebbe commesso in stato di trance. D’altronde ad uccidere sono le mani, non lui, per cui il sospetto, seppur allarmante, non implica alcuna assunzione di responsabilità da parte di Orlac. Invano il chirurgo tenta di convincerlo che non sarà facile scampare alla forca; che non sono le estremità a comandare, ma la testa e il cuore…
Leggendo Germania segreta di Furio Jesi, che a distanza di cinquant’anni dalla sua prima apparizione la casa editrice Nottetempo ristampa ora con la curatela di Andrea Cavalletti (281 pagg., 18 euro), il film con Peter Lorre appare per quello che è: un’allegoria delle più cupe vicende mitteleuropee. Basta sostituire Orlac con i tedeschi, la testa con la letteratura di quel popolo e le mani con Hitler, e il gioco è fatto. A patto, naturalmente, di ammettere che le mani possano essere separate dalla testa, ciò che Jesi cerca di dimostrare percorrendo con sconfinata erudizione alcuni temi centrali della cultura tedesca fra cui la kore, vale a dire la giovane donna seducente, la metropoli espressionista e le immagini di morte che affollano il décor vegetale di fine secolo; di volta in volta chiedendosi se Thomas Mann e Rilke, Wagner e Wedekind abbiano peccato di intelligenza con il nemico, passando da un’involontaria fascinazione per il demoniaco a una deliberata scelta in direzione del male. Dove il male è, per l’appunto, la “Germania segreta”, formula che dà il titolo a una lirica di Stefan George, ricompare in un discorso di Norbert von Hellingrath per designare “quell’anima tedesca, celata e travisata, cui Hölderlin volle attribuire la missione di una rinascenza della grandezza della civiltà classica” e infine viene pronunciata come un testamento dall’attentatore di Hitler Claus von Stauffenberg, le cui ultime parole prima di essere impiccato per ordine del Führer “come un animale”, con ganci da macellaio e corde di pianoforte, furono “Es lebe das geheime Deutschland”, “Viva la Germania segreta”. Kantorowicz, che come i fratelli Stauffenberg era un membro del circolo di Stefan George, raccontò che nel 1924, assieme ad altri esponenti del “Kreis” di George, aveva deposto sulla tomba di Federico II di Svevia a Palermo una corona d’alloro che recava la scritta “Ai suoi imperatori ed eroi. La Germania segreta”. La formula evoca il vagheggiamento di uno stato originario della Nazione, un paradiso aristocratico della cultura la cui sopravvivenza è minacciata dal capitalismo, dalla democrazia e anche dagli imbianchini austriaci. Jesi, però, articola la lettura politica in un orizzonte più vasto: “Germania segreta” è “il simbolo di quegli abissi della psiche umana in cui il dio di amore e il demone del male sono nomi senza significato, una riserva di immagini dalle quali l’uomo può essere sopraffatto. Tale sopraffazione si colloca al di fuori di una morale della responsabilità. Responsabile è unicamente il comportamento di chi, dinanzi all’affiorare delle immagini dell’inconscio, le accoglie lietamente quali determinanti delle sue azioni o addirittura quali oggetti di devozione”.
Esemplari, da questo punto di vista, sono le pagine dedicate allo scrittore che più di chiunque altro ha rasentato la sfera della pura perdizione, Thomas Mann, e in particolare al Doktor Faustus, il romanzo in cui la “Germania segreta” è il villaggio mitologico nel quale il protagonista Adrian Leverkühn decide scientemente di tornare, inabissandosi nella propria pulsione di morte. Ma la lista delle opere d’arte in cui tale pulsione si sarebbe manifestata è sterminata: dosi abbondanti di “Germania segreta” cantano nella notte del Tristano e Isotta di Wagner, dominano La morte di Virgilio di Broch, ammiccano nei Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. Fra le righe, torna a risuonare la domanda essenziale: in che misura la cultura tedesca, grondante morbosità, è stata complice dell’apocalisse nazista? Una cultura che per centocinquant’anni flirta impunemente con la morte può, ad Europa distrutta, proclamare la sua innocenza? Domanda spinosa; anche Siegfried Kracauer, quando traccia una linea retta dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, va a caccia delle prefigurazioni del nazismo nel cinema dell’espressionismo tedesco, ma non ipotizza mai un rapporto di causa ed effetto e soprattutto si guarda bene dal sostenere che quelle pellicole furono le incubatrici della dittatura. Jesi è più vicino, semmai, al Lukács della Distruzione della ragione, convinto come lui che le idee abbiano delle conseguenze (a volte tragiche).
Bisogna dire che come accade in certi processi un po’ farseschi alla fine Jesi assolve tutti, o quasi; Mann e Brecht, per esempio, vengono assolti grazie all’attenuante della parodia, cioè del distacco critico nel confronti del sulfureo materiale trattato. Geoffrey Firmin, il protagonista alcolizzato di Sotto il vulcano, avrebbe dissentito: forse le mani – forse certe mani – avranno acquisito una loro autonomia; e tuttavia “certi errori sono imperdonabili…”
 

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La questione alla base di Germania segreta: la Germania ha innescato due guerre mondiali. Che ciò sia la conseguenza delle fiabe dei fratelli Grimm, lugubri quant’altre mai, della simbologia funebre di legioni di poeti tedeschi, dell’angoscia emanata da quadri celebri e ideologicamente ambigui (e anche un po’ comici) come “L’isola dei morti”?

Il plot è quello dell’apprendista stregone o, se si vuole, del bambino che gioca con i fiammiferi. Perché il bambino gioca con i fiammiferi? Per divertimento, o perché è affascinato dal fuoco? E se lo è, non è che magari poi gli viene voglia di appiccare il fuoco alla casa? Mettiamo di no: in questo caso, chi ha giocato con il fuoco per tutta la vita senza scottarsi o quasi, è responsabile se poi i suoi connazionali, con quegli stessi fiammiferi, mettono a ferro e fuoco il mondo?

Si chiede Jesi se il mito possa essere, di per sé, mortifero, demoniaco, in una parola criminale. Questa è una domanda assurda, implicando un distacco fra mito ed essere umano e nel vedere nel mito delle narrazioni che precedono l’umano. Tale distacco è impossibile: per usare la parole di Blumenberg, il mito di Prometeo non è la risposta narrativa a domande eterne sull’uomo, ma l’orizzonte a partire dal quale solo è possibile porsi delle domande su di lui.

Le frasi descrittive sono o vere o false, ma le narrazioni non lo sono. In Germania segreta vi sono centinaia di occorrenze dell’aggettivo “genuino”, quasi sempre riferite al mito; un aggettivo che evoca più che altro la pubblicità delle conserve di pomodoro. Centinaia di occorrenze sono troppe per non alludere a un nodo irrisolto, a una contraddizione. La ricerca del fondamento del mito smaschera l’intento metafisico della stessa. Se si dovesse dare una definizione del mito, si dovrebbe dire che esso è ciò che non ha fondo, non nel senso di una sua abissale irrazionalità, ma perché non è una creazione stabilita una volta per tutte. Lo stesso Blumenberg, il quale ha mostrato che i miti possono essere “metafore assolute”, ribadisce che essi sono pur sempre sottoposti a una infinita elaborazione, la quale a volte si inaugura prima della nascita del mito stesso. Per esempio nel Riso della donna di Tracia si sottolinea che la storiella del filosofo caduto nel pozzo precede l’età di Talete.

Il primo errore è di Kereny quando distingue fra mito autentico e mito strumentalizzato, per cui le walkirie dell’Edda non sono quelle di Wagner, né tantomeno quelle del misticismo nazista. Si tratta di un modo di ragionare che suscita confusione teorica, perché se è vero che i miti sono sempre stati sfruttati dal potere, almeno da quando Numa Pompilio per opportunismo fece girare la voce che il suo ideologo di riferimento fosse la ninfa Egeria, la distinzione non passa fra il mito “genuino” e le sue deformazioni, ma fra le infinite elaborazioni del mito all’origine delle quali non c’è alcuna aurora ineffabile posta fra l’umano e la materia, ma sempre e solo altri miti. Già Herder aveva dimostrato che quello del linguaggio (e dunque del mito) e dell’uomo è un parto gemellare e che non si dà uomo senza racconto.

Quando Kereny cerca di distinguere fra miti veri e miti falsi o falsificati cade nella trappola illuministica di schiacciare il piano mitologico, un piano estraneo alla logica apodittica del vero e del falso, su categorie scientifiche. L’errore, scusabile e forse utile dal punto di vista politico, ma grave dal punto di vista filosofico, consiste nell’applicare al campo del mito una contrapposizione fra verità e menzogna che ha ragion d’essere solo nella scienza. Se dico “domani passerò da te alle cinque” questa frase non è né vera né falsa. Anche Madame Bovary, La Quinta di Beethoven e la Gioconda non sono né vere né false e quando i fratelli Goncourt nella celebre prefazione scrivono che i loro sono “romanzi veri” stanno sollevando lo stesso fumo di stupidità ventilato da Agostino quando per puntellare il cristianesimo, con una mossa sleale si mise a parlare di religione “vera”. In Jesi si va oltre: c’è una tendenza moralistica a giudicare, come da un tribunale, i grandi artisti tedeschi e ad assolverli solo a patto che si ritraggano inorriditi dal marasma del mito deformato che essi stessi, da apprendisti stregoni, hanno evocato.