venerdì 12 luglio 2013

Astenersi critici






E’ già, di per sé, una dichiarazione di intenti l’immagine che il critico letterario Domenico Calcaterra ruba a Balzac per dare il titolo alla sua raccolta di approfondite recensioni, Niente stoffe leggere, Meligrana Editore – Priamo 2013: la critica, dice il personaggio di Lousteau nelle Illusioni perdute, “non è una spazzola che si può usare sulle stoffe leggere, o si porterebbe via tutto”. Un’affermazione che conduce a due generi di riflessione, l’una statistica, l’altra concettuale. Ci si potrebbe infatti chiedere quante opere di narrativa, oggi, resisterebbero a una simile spazzola; domanda retorica: anche ammesso che alcuni romanzi meritino l’attenzione del critico, pochissimi resisterebbero. Volendo prolungare con effetti comici la metafora tessile (fra tessuti e testi esistono chiare parentele etimologiche), si potrebbe immaginare sui romanzi un’etichetta del tipo di quelle che vengono cucite sugli abiti, e che vietano di volta in volta il candeggio, la centrifuga e così via. Potrebbe essere lo stesso autore, perché no, a pregare il critico di tenersi alla larga dal suo romanzo, perché opera costituzionalmente inadatta a letture analitiche, che “lo rovinerebbero”. Astenersi critici… Del resto, così come non si chiede la carta di identità ad un topo, così non si dovrebbe pretendere contezza di sé agli scrittori che non desiderano partecipare al great game del canone, o della storia della letteratura.
La seconda riflessione tocca lo stile interpretativo di Calcaterra, legato ad una visione della critica di tipo parzialmente provocatorio. Non si tratterebbe, cioè, di “ridire” l’opera, ma di sottoporla a un test che potrebbe anche avere aspetti leggermente aggressivi: proprio come alcuni periodici, per recensire una nuova autovettura, la sottopongono a una serie di stress. Operazione della quale, beninteso, si avvantaggia l’utente finale, sia esso un automobilista o un lettore. Questo non significa che Calcaterra non sia in grado di distillare l’essenza di un autore, al contrario: si potrebbe invece affermare che solo il testo che ha superato la prova della robustezza merita il passo successivo, quello che implica una certa specularità fra romanzo e recensione.  E quanto alla specularità: quando, a proposito di Claudio Morandini, Calcaterra scrive che l’autore di A gran giornate “giuoca, a carte scoperte, in minore, il gioco dell’allegoria contemporanea d’una umanità spaventata, dove il terrore ontologico viene esorcizzato (anch’esso il più antico e letterario dei rimedi) con l’anestetizzante placebo d’un registro comico che deborda a tratti nell’assurdo, arpeggiando l’allegra profezia dell’irrimediabile dipartita di ciascuno e dello scongiurabile (non sappiamo ancora per quanto) sfasciarsi della sintassi del mondo”; be’, non c’è dubbio che qui Calcaterra rivela le abilità che distinguono il critico di vaglia dal dilettante o dall’apprendista stregone. La stessa pertinenza e perspicacia critica rivelano le pagine destinate al Trevi, straordinario, di Qualcosa di scritto, e a molti altri autori recensiti. Ma non vorrei fare a Calcaterra ciò che lui ha fatto, in questo volume, a Baldacci e ad altri critici (Serra, Borgese, Onofri…), preferendo soffermarmi su un paio di punti che mi sembrano caratterizzanti, e che mi spingono a vedere nelle pagine di Niente stoffe leggere un’aria di famiglia. Per cominciare, la predilezione per lo “stile del saggio” e il fastidio verso gli eccessi metodologici che hanno dominato nella stagione dello Strutturalismo e della Semiologia. Calcaterra, che si è addottorato in Letteratura Italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Sassari e ha all’attivo una monografia su Consolo, è metodologicamente agnostico. “Qualcuno”, scrive Calcaterra”, ha voluto ridurre il Montale sentimentale di Ficara a nulla più che un attraversamento anti-filologico e mimetico-impressionistico, accostandolo, per strategia argomentativa, all’ibrido esperimento saggistico-narrativo (peraltro riuscito) tentato da Emanuele Trevi con l’ultimo Pasolini di Petrolio, nel segno di una presunta corruzione di consolidati canoni di accertamento critico, come se ne esistessero poi di imprescindibili e fissati una volta per tutte”(corsivo mio). A un simile scetticismo dà man forte anche un critico come Baldacci: “E già il solo tirare in ballo il concetto di verità basta per comprendere la sua radicale avversione per il colossale equivoco della letteratura ridotta a scienza e, di conseguenza, dell’accertamento critico destituito di valore e tutto basato sull’indiscriminato ricorso a un metodo, come quello sociologico-strutturalista, d’universale applicazione; quando piuttosto il critico, dovendo essere, come voleva il Fortini di Verifica dei poteri, «il diverso dallo specialista», dallo scienziato delle lettere, deve riuscire, sempre muovendo da una precisa occasione, a «parlare di tutto», potersi muovere in libertà nello specchio di continuata e reciproca rifrazione tra letteratura e vita.” Si può discutere una disinvoltura teorica che, lasciando le mani libere al critico, ne indebolisce la pretesa di universalità; eppure le cose migliori uscite negli ultimi vent’anni sono nate dalla penna di straordinari saggisti; basterebbe fare i nomi di Steiner o di Bloom, per esempio. Aggiungerei che il termine di “autobiografia”, che ricorre spesso in questa raccolta, soprattutto nella sua matrice storico-sociologica, cioè gobettiana, è un contrappeso al concetto cartesiano di metodo. La storia personale (anche la storia personale della nazione) tiene luogo ed è più affidabile del “pezzo di carta”, sempre falsificabile, e delle credenziali, sempre dubbie. Questa era anche la convinzione di Sciascia. Ma il discorso porterebbe lontano, e costringerebbe a riaprire il dossier di quella Dialettica dell’Illuminismo che Calcaterra, peraltro, discute in alcune pagine di Niente stoffe leggere.
L’altro aspetto rilevante è che le letture di Calcaterra, in parte, rettificano lo scavalcamento teorico della prefazione avanzando una tesi organica sullo scrivere: secondo l’autore, la letteratura che incide di più è quella che non parte dalla realtà, né la imita, né vuole redimerla, ma se ne allontana nel modo più deciso. Giocando con una celebre coppia di termini, si può dire che la letteratura che ha Wirklichkeit (realtà intesa come effettualità) è quella che si disinteressa della Realitaet (realtà intesa come orizzonte passivo del dato). La (trattenuta) stroncatura del pamphlet di Shield Fame di realtà, e soprattutto l’irresistibile recensione di un libro addirittura di Gene Gnocchi (a proposito del quale, leggendo Calcaterra, si ha l’impressione di essere di fronte ad un nuovo Diario minimo, che avrebbe meritato maggiore attenzione) sono eloquenti: il luogo comune della "fine della storia", che dell’ossessione realista è un derivato, ridotto ormai a cascame, dovrebbe suscitare solo parodie come quella di Gene Gnocchi, non saggi filosofici o digressioni sull’esaurimento del genere romanzo. Scrive Calcaterra: “Trovo più che mai auspicabile il ritorno a una letteratura, una narrativa che non sia immediatamente rivolta al racconto in presa diretta della realtà. E reputo oltremodo necessari e preziosi libri (e dunque autori) che conservino oggi il coraggio intellettuale di andare, in tempi di facile e scontato iper-realismo, tanto nella lingua quanto nella scelta delle cose da raccontare, controcorrente.” Sono parole, peraltro lusinghiere, destinate al sottoscritto, ma vorrei che fossero considerate come una preziosa indicazione valida per tutti, una bussola utile a non perdersi nelle trappole, in genere demagogiche, di cui è costellato il cammino dello scrittore.