sabato 3 settembre 2011

Per farla finita con la distinzione tra realtà e finzione. Osservazioni su un saggio di Filippo La Porta

Qualche giorno fa ho finito di leggere il saggio Meno letteratura, per favore! di Filippo La Porta (Bollati Boringhieri, 138 pagg., 11 euro). Uscito nell'ottobre del 2010, il volumetto mette il dito sulla piaga per ciò che riguarda l'inflazione di storie che caratterizza la nostra epoca. Un paio di anni fa, tanto per fare un esempio, Le monde littéraire - il supplemento letterario del quotidiano francese - riportava in prima pagina una fotografia in grado di erodere il residuo romanticismo legato alla professione di storyteller: centinaia di sceneggiatori, scrittori ed altri "addetti al settore delle storie" sfilavano negli USA in occasione di uno sciopero della categoria. A giudicare dalla foto, erano più numerosi dei metalmeccanici italiani. Insomma, la nostra società richiede storie in quantità enormi, sicché ha fatto bene La Porta a dedicarvi un suo scritto. Intanto, Meno letteratura è un'agile carrellata sulla recente narrativa italiana, con definizioni critiche che ho trovato spesso sorprendenti e perfette: (per esempio la definizione riuscitissima dello stile di Rosa Matteucci come "cimiteriale-picaresco"). Ma per tornare alle questioni evocate dal titolo, dirò subito che il saggio di La Porta, all'inizio, mi ha allarmato: la copertina accennava alla letteratura come "infiorettamento", come l'operazione di impreziosire, come "elegante addomesticamento di tutto ciò che è sgradevole". In altre parole, sembrava quasi che per l'autore la letteratura coincidesse con ciò che Derida chiamava "supplemento", come l'aggiunta o la sostituzione di qualcosa che c'è già, come elemento accessorio. “Meno storie” significherebbe allora meno arzigogoli, meno ricami, in una parola meno “retorica”? Per fortuna, nelle pagine successive, non solo La Porta abbandonava questa visione della letteratura, ma proponeva di leggere il rapporto tra realtà e finzione in una forma del tutto diversa, e che mi sembra estremamente produttiva. Vorrei ora raccontare una storia terribile, ma molto eloquente. Qualche anno fa, ho tradotto dal francese per la casa editrice di Internazionale, Fusi Orari, l'autobiografia dell'editore Maspero, Les abeilles et la guepe. In un passo del libro si raccontava di ciò che accadde alla madre dell'autore quando, alla fine della Seconda guerra mondiale, la donna tornò dal campo di concentramento. Provò a raccontare a parenti e amici l'orrore vissuto, ma nessuno riusciva a comprendere davvero cosa fosse successo. Non è che non le credessero: semplicemente non riuscivano a misurare le dimensioni dell'atrocità. Una zia, evidentemente irritata dai dettagli dell’inenarrabile racconto, l’apostrofò: "Cosa credi, anche noi durante la guerra abbiamo sofferto! Per esempio abbiamo dovuto fare a meno dell'olio per tutto l'inverno…" Sarebbe facile spiegare questa spaventosa "sordità" con Primo Levi o con Lyotard, e ammettere che l'Olocausto sia “irrappresentabile”. Ma forse la spiegazione è più semplice: la realtà, se non si sa raccontare, nemmeno esiste. Bisogna (per una necessità quasi biologica) essere bravi affabulatori, altrimenti anche il fatto più bruto, anche l'evento che meno sembra aver bisogno di essere interpretato, affonda, sbiadisce e diventa un nulla. Non è vero che la retorica (la famosa carrellata sul campo di concentramento, di cui Rivette accusava il regista Pontecorvo in De l’abjection) è "abietta": abietto, o quantomeno scientificamente fuorviante, è illudersi che la realtà "parli da sé", che non abbia bisogno dell'arte degli uomini per essere "detta". Eliminare la retorica è invece un crimine, perché vorrebbe dire abbandonare i "fatti" a se stessi; il che, lungi dal renderli più eloquenti, equivarrebbe ad una reductio ad silentium. Ho dunque continuato a leggere il saggio di La Porta, e questo finché non ho letto che "la realtà ha bisogno di essere messa in scena. Altrimenti resta opaca, inanimata. E per metterla in scena occorre non tanto infiorettarla ... quanto padroneggiare le tecniche e le strategie della narrazione.” Ecco, vorrei partire da questa tesi, espressa con la massima chiarezza in Meno letteratura, per radicalizzarla e proporre una ristrutturazione del rapporto fra realtà e letteratura che fa a meno del concetto di finzione. Noi, di solito, opponiamo realtà e finzione; inoltre distinguiamo due tipi di letteratura: quella realistica, che farebbe parte della realtà, e quella fantastica o "d'invenzione", che ovviamente farebbe parte della finzione. E quando ci troviamo di fronte ad opere che non si sa dove collocare sentiamo il bisogno di creare delle categorie ibride, come la "faction", il new journalism o il buon vecchio romanzo storico. Ora, ho l'impressione che se vogliamo denunciare l'abuso di letteratura (quello che si potrebbe battezzare l’"imperialismo narratologico") è meglio percorrere un'altra strada: ipotizzare che esista un territorio comune all’esperienza e alla letteratura, e che su tale “regione” si concentri pour cause l’interesse dell’industria culturale perché si tratta di una regione che ognuno di noi non può permettersi di ignorare, perché dalla capacità che noi abbiamo di padroneggiarne le regole derivano le nostre possibilità di sopravvivenza. In altre parole, c’è una regione dell'esperienza che il romanzo mima perfettamente, e che deve essere considerata come né puramente finzionale né puramente reale, perché è indifferente alla distinzione tra reale e finzionale. Mi spiego meglio: esiste letteratura non romanzesca, per esempio la poesia; e grazie al cielo esiste tanta realtà non romanzesca (per esempio farsi un caffè non ha niente di romanzesco). Cosa chiede, invece, l'industria culturale al letterato? Chiede ciò che La Porta chiama "strategia della narrazione". Ma questa strategia è la stessa che ognuno di noi mette in opera nell'azione. Non è strategia della narrazione, è strategia e basta, cioè azione. Si agisce per afferrare qualcosa (un oggetto o un sapere, direbbero i semiologi); per afferrare qualcosa c'è bisogno di trovare degli strumenti (conoscitivi o reali); e poiché le cose che valgono sono rare, è inevitabile che queste azioni siano rese ardue da competitori, da concorrenti, da chi si oppone al nostro successo perché anche lui vorrebbe raggiungerlo. Ecco, questa è la vera dittatura della narrativa: leggere la realtà sempre sotto forma di conflitto, di obiettivi da raggiungere, di bersagli da centrare. Saviano a questo punto potrebbe essere considerato un esempio negativo non già perché ha confuso la realtà tragica con la finzione narrativa (il famoso telefonino sulla bara della bambina uccisa in una sparatoria, episodio probabilmente inventato), cioè perché Gomorra vuole appartenere al genere “romanzo” ma poi è anche cronaca; è un esempio negativo perché l’autore ha “reso” il fenomeno camorristico sotto una forma esclusivamente narrativa, grazie ad una focalizzazione esclusiva sul conflitto, sul bozzetto, sull'aneddotica e la ricerca del sensazionale; non a caso le pagine più celebri di Gomorra sembrano composte da leggende metropolitane vere…). Questo forse è l'errore, naturalmente in buona fede, di Saviano. Il pericolo di un’espansione indefinita della letteratura nel mondo, quasi una colonizzazione della realtà da parte del narrativo, non coincide allora con il rischio di introdurre la menzogna dove dovrebbe esserci cronaca "fotografica" e magari Storia, ma del privilegiare, della realtà, solo quegli aspetti che sono immediatamente romanzeschi, perché appartengono a quella regione in cui l’opposizione fra realtà e finzione non vale. Parafrasando una celebre affermazione di Gadda, romanzesco è il mondo, non la letteratura; più precisamente, esiste un piano che neutralizza la distinzione fra realtà e finzione, perché la sue essenza non è né reale né finzionale.

Nessun commento:

Posta un commento