giovedì 19 marzo 2020

Il mucchio selvaggio al tempo del coronavirus

Il mucchio selvaggio al tempo del coronavirus

Al tempo del coronavirus, il gioco delle parti e la topologia “Bene vs Male” è mutuato dalla retorica puritana. Da una parte la ragione (medici, scienziati, virologi, epidemiologi), dall’altra la farragine delle persone irrazionali, farragine la cui creazione per accumulo (si tratta di un mucchio) svela la matrice etnocentrica se non xenofoba degli “illuminati” che la pongono in essere (li chiamerò così, con tanto di virgolette, per distinguerli dagli illuministi del Settecento che erano più simpatici, intelligenti e sensati). Il mucchio selvaggio è costituito da coloro che dividono una visione magica o mistica della natura; dai nostri primitivi, las indias de para aqui; dagli analfabeti scientifici; da chi pur non essendo un analfabeta scientifico odia la scienza, eccetera.
Come detto, una simile self-flattening divisione dell’umanità in due parti, gli illuminati da una parte, gli accecati dall’altra, è un’opposizione di matrice religiosa: calvinista e precisamente puritana. Sento anche il bisogno di aggiungere una seconda osservazione: mi dispiace per le idées reçues degli illuminati, per il loro cosmo diadico e gerarchico, ma popoli non solo al di qua della rivoluzione scientifica, ma senza scrittura e che vivono allo stadio paleolitico attuano forme di controllo delle epidemie analoghe a quelle suggerite dall’OMS. Isolamento, distanziamento sociale, rarefazione dei rapporti fra le persone. Ciò accade perché in questo caso i primitivi si dimostrano lucidamente razionali? No: semplicemente sono più accorti e più buoni di noi.
Bene, stravolgerò questo gioco delle parti. Ipotizzerò che oggi, con il coronavirus tra i piedi, i comportamenti lesivi della propria e dell’altrui salute si basano su una visione (aberrante, oltre che epistemologicamente fasulla e scientificamente paralizzante) tipica degli albori della Rivoluzione scientifica.
Prima, però, vediamo come ragionano gli illuminati. Chiusa la strada – da loro sempre privilegiata, in questo caso purtroppo impervia – del radicalismo assoluto e apodittico (del tipo: il coronavirus è una peste che contagia a distanza e uccide il 100% dei contagiati e chi non lo capisce è cieco; oppure: il coronavirus è una normale influenza che non deve destare troppe preoccupazioni e chi non lo capisce è sordo), è giocoforza sviluppare una doppia censura: verso chi si lascia prendere dal panico e trema come una foglia se solo lo sfiora un passante; e verso chi ignora totalmente il pericolo.
I primi, gli “impanicati”, sarebbero “primitivi”. Uso condizionale e virgolette perché dare del primitivo a un uomo che non sa leggere e scrivere è una mostruosità, ma gli illuminati non hanno di questi scrupoli perché per loro gli unici uomini veri sono quelli “evoluti”, agli altri mancherebbe qualcosa, sarebbero dei minus habens. I terrorizzati dal virus sarebbero “primitivi” perché esagerano in un senso, lasciando il libero corso a paure che saranno definite, con compiacimento, ancestrali, ataviche, animali e così via, mobilitando il corrusco vocabolario di aggettivi che gli illuminati infliggono a chiunque osi sostenere che ci sono al mondo di più cose di quante ve ne siano nelle loro matematiche.
E i secondi? Ebbene, sono “primitivi” anche coloro che si danno al fatalismo, come tanti don Ferrante che muoiono di peste perché la peste non è né sostanza né accidente. Fatalismo che peraltro non desta la curiosità intellettuale degli illuminati e che dunque (e anche questa negligenza è rivelatrice) non viene indagato, sebbene forse alcune ipotesi (cupio dissolvi, thanatos freudiano, mancanza di speranze, gelo spirituale e morale, taedium vitae) potrebbero riservare qualche sorpresa.
Quale strategia, a questo punto, raccomandano di seguire gli illuminati? Un percorso intermedio fatto essenzialmente di due cose: di prudenza e consapevolezza che con le epidemie siamo di fronte a fenomeni di tipo probabilistico.
Cominciamo con il concetto di probabilità. La ragione per la quale la gente fuma, mangia male, guida in modo pericoloso e, udite udite, nei giorni del coronavirus tocca il pulsante per avere il verde pedonale al semaforo e poi si mette le mani in bocca o si stropiccia gli occhi è che si tratta di azioni che appartengono, direbbe Aristotele, al campo del “talvolta” o del “per lo più”. Ci si può infettare, ma solo talvolta. Per lo più ci si infetta, ma talvolta no. Bene, sapete che ruolo gioca il calcolo della probabilità nelle pagine di Galileo o di Cartesio? Nessuna. Entrambi imbastiscono una lettura dei fenomeni naturali che passa solo attraverso la mathesis universalis. Ora, il campo delle matematiche è un campo in cui vale la logica apodittica del vero e del falso. Un calcolo o è eseguito correttamente, e allora è vero, o no, e allora è falso. La seconda legge di Keplero o è vera o è falsa. Questo matematismo ristretto, rilevabile nel famoso passo di Galileo del Saggiatore in cui si afferma che la natura è scritta a caratteri matematici, e chi non la conosce non capisce niente della natura; e nel passo giovanile del sogno di Cartesio in cui si suggerisce di ragionare con il metodo dell’est et non, cioè con una logica binaria e poi in infinite altre pagine (nelle Regulae ad directionem Ingenii, nel Discours de la Méthode, nelle lettere) condanna all’oscurità qualsiasi area del sapere in cui la logica apodittica dell’est et non, del vero falso, non si applica. Questo è il punto che mi interessa sottolineare. Già nella seconda metà del Seicento, con Pascal e soprattutto con Leibniz, si metterà mano a una matematica della probabilità, che però oggi nel senso comune evoca immagini molto lontane dal laboratorio dello scienziato: evoca, piuttosto, il tavolo verde della roulette e le carte da poker. Per l’uomo della strada la scienza è apodittica o non è. In altre parole, alcuni con l’epidemia in corso si sono comportati in modo autolesionista perché l’immagine predominante che si ha della scienza non contempla le leggi dei fenomeni probabilistici e anzi le tratta alla stregua di pseudo-leggi, come aveva fatto Cartesio quando nel Discours aveva equiparato il probabile al falso. L’uomo che tocca il pulsante del semaforo e poi si mette il dito in bocca non è distratto: sta applicando alla lettera l’epistemologia di Descartes e di Galileo.

E adesso veniamo al secondo suggerimento offerto degli illuminati, l’accortezza. A che titolo, in questo caso, parlano? A me sembra che la saggezza pratica abbia poco a che vedere con la scienza e molto con la prudenza, virtù che come tutte le virtù non appartiene al campo del sapere ma al campo della morale. La prudenza, come le altre virtù, per Aristotele è il medio fra due vizi. E allora, perché non si riconosce il carattere efficace di questo tipo di prudenza? Perché si tratta di una virtù morale (ripeto, non un sapere: una virtù), che purtroppo a differenza del lumen naturalis vantato da Cartesio è distribuita nel genere umano in modo non uniforme e con una difformità che non passa attraverso l’opposizione fra cultura scientifica e cultura pre-scientifica (dividendo i popoli evoluti dai popoli selvaggi) perché è interna a tutti i popoli. Dimenticarlo costituisce una rapina epistemologica nei confronti delle aree dell'azione umana cui appartengono le questioni qui discusse: la morale e soprattutto la politica.

mercoledì 12 febbraio 2020

L'orpello dell'arte





Qualche anno fa, la prima pagina del supplemento letterario di un noto quotidiano francese riportava un’immagine sorprendente. Alcune migliaia di lavoratori in sciopero sfilavano lungo le strade di una grande città americana. Si scorgevano gli striscioni, le trombette, si intuivano i canti e gli slogan. Lo stupore arrivava con la didascalia: non erano metalmeccanici, erano impiegati del settore della narrazione. Una legione di sceneggiatori, romanzieri senza nome, inventori di storie per fumetti e serie televisive. Sembravano involontariamente confermare le tesi della cosiddetta biopoetica, la teoria secondo cui la migliore definizione dell’essere umano non è homo sapiens sapiens – il nostro pianeta ridonda di società che ignorano la scrittura, il calcolo avanzato, la razionalizzazione spinta – ma homo narrans. Visto che, a quanto pare, siamo creature che hanno bisogno di storie come di aria per respirare e acqua per dissetarsi, l’industria culturale offre una quantità enorme di racconti. Il problema di questo modo di intendere le cose è che la letteratura guadagna qualcosa – le storie smettono di essere un hobby cui ci si dedica nel tempo libero e diventano una necessità imprescindibile – ma perde la possibilità di valere come una palingenesi. Quando Alberto Arbasino chiese a Pierre Klossowski perché si scrive, l’autore del Bafometto rispose che era un atto di libertà in un contesto di folklore. Ma si può andare oltre e dire che la letteratura è uno strumento di resurrezione: come da sempre sostiene Andrea Caterini e come viene ribadito nel recente Romanzi e paesaggi, (Castelvecchi, 288 pagg., 22 euro). Si tratta di una raccolta di interventi, saggi e recensioni, molte delle quali apparse una prima volta sulle pagine del Giornale. Intellettuale vorace e appassionato, Caterini esclude risolutamente dal suo orizzonte la romanzeria di mestiere, alla quale non dedica un rigo, e quando sfiora autori (per esempio la Némirowsky) in sospetto di furbizia e con l’aggravante della bravura, una bravura inutile e che, cessata l’eco dell’applauso, lascia svuotati, lo fa solo per sottolineare il costo esorbitante della superficialità. Meglio sorvolare, poi, per carità di patria, su cosa pensa degli scrittori italiani più apprezzati e popolari, la cui lista è del resto facilmente reperibile visto che coincide con il palmarès dei premi più importanti, dallo Strega in giù.
Naturalmente se la letteratura è la specie di un genere che rassomiglia a una religione millenarista, promessa utopica d’evasione dalla vita banale, la tendenza sarà a non perdere tempo e a occuparsi di temi abissali: l'io, la realtà, la verità. Romanzi e paesaggi si apre con una disamina del Tractatus di Wittgenstein, l’opera più mistica del grande filosofo viennese, e anche in seguito non abbandona il gusto per la speculazione, a costo di dissotterrare il racconto più filosofico di Jerôme (sì, quello di Tre uomini in barca), di isolare la filigrana in ultima istanza metafisica del mondano Proust, cui sono dedicate pagine audaci e perfettamente convincenti o di ridurre all’osso, in questo caso all’opposizione fra “legge del mondo” e “sublime” quell’anima bramosa di assoluto che fu Malcolm Lowrie. Attenzione però a non cadere in un equivoco: anche se del romanziere si sollecita la risposta a un problema filosofico, esistenziale o morale Caterini è troppo intelligente per non sapere che qui, davanti ai piedi del critico, attende una trappola. Già Aristotele osservò con qualche perfidia che una tragedia può discutere argomenti importanti (per esempio la schiavitù, trattata con spregiudicatezza dai personaggi di Euripide) e tuttavia mancare di ottenere l’effetto drammatico. Il critico non può scambiare un romanzo per una complessa allegoria, sciolta la quale la tesi in esso celata viene esposta senza l’orpello dell’arte, ma deve lanciare a se stesso una sfida: quella di mostrare che il tema è inscindibile dallo stile, con il quale letteralmente fa corpo. Liberare il concetto di stile dall’ipoteca decadente e restituirlo alla sua dimensione radicalmente antropologica e, al limite, mistica: questo è il compito che Caterini si è posto e che in queste pagine viene portato a termine una quantità di volte, si tratti di enucleare le elusive strutture dei romanzi di Franco Cordelli, di sviscerare le ossessioni di Francesco Permunian o di ricostruire il cosmo morale di uno scrittore amato come Paolo Del Colle.
Si è parlato di resurrezione, e occorre precisare che questa parola non deve essere intesa in senso apocalittico. Per citare un passo molto eloquente su Proust: “questa resurrezione non potrà che essere la resurrezione di un Lazzaro e mai quella di un Cristo.” E a proposito di apocalisse e di apocalittici: la raccolta contiene anche alcuni interventi polemici o per meglio dire inattuali (nel senso di Nietzsche) uno dei quali si apre con una frase provocatoria, “La mia generazione non esiste”. Sarà vero? Dopo aver chiuso il volume si ha l’impressione che invece esista, e goda di buona salute.