martedì 4 ottobre 2011

Elogio della frigida





Stanotte, mentre dormivo, il fantasma di Adorno è venuto a trovarmi. In piedi in un angolo della stanza, giocherellava con il mio arco da caccia. Gli erano ricresciuti tutti i capelli. Stavo per interrogarlo quando mi ha apostrofato: "Taci! E domani, appena ti svegli, scrivi al posto mio un elogio della frigida!" Poi ha scagliato un'invisibile freccia in direzione dell'abat-jour, ed io mi sono riaddormentato.




ELOGIO DELLA FRIGIDA
La meccanica e il teatro del sesso, allorché essi siano ricondotti a quel gesto prototipico che, pur deformando e misconoscendo l’essenziale, domina col suo abbozzato formulario sia il linguaggio comune sia l’immaginazione, appare determinata dal desiderio maschile di infliggere e di immobilizzare, cui segue nella donna qualcosa come il subire un sopruso. Tuttavia, se fisicamente e persino politicamente un tale schema appare accettabile, non lo è per nulla se si passa a considerazioni che riguardano il piacere e gli effetti che esso produce. Infatti al progressivo crescere del successo maschile corrisponde non un maggiore potere di controllo sulla donna, ma una sua paradossale fuga sur place, fuga raccolta euforicamente dal gergo nella frase secondo cui lei «va via di testa». In realtà, è andata via del tutto: non appena la trappola sembra scattata, la preda è ormai lontanissima ed avvilisce l’uomo riducendone il ruolo a quello di semplice e anonimo detonatore di processi, i quali hanno in sé, e non in chi li ha fatti scattare, il loro centro. Qui a conferma vale meno la proverbiale e mai stabilita maggiore, rispetto all’uomo, capacità femminile di godere, e più gli occhi chiusi, a motivare i quali è evidentemente estraneo qualsiasi pudore. Che il sentire animale e propriocettivo prevalga sul teoretico vedere non implica infatti alcuna scesa a patti con la materia, ed è anzi il sintomo di un capovolgimento dell’infinitamente vicino nell’infinitamente remoto. Perché questo accade? Perché la carne umana contiene un’aporia. Aristotele sosteneva nel De anima che nel tatto la carne si trasforma in medium, affermazione sbalorditiva che si tollera solo per un secondo, prima di accorgersi che essa distrugge la plausibilità della teoria dell’anima come forma del corpo, palesando l’insostenibilità dell’identità tra vita e conoscenza su cui quella teoria si basa. Che nel tatto la carne sia un medium vuol dire che il corpo animato o conosce o vive, ma mai che esso conosce e vive nello stesso istante. Infatti, poiché la carne fa parte della persona, mentre l’aria e l’acqua (i media del vedere e del gustare) no, nel tatto l’anima è più che mai ridotta ad un punto metafisico e separato, e dunque semplicemente scompare. Il cuscino del corpo, che con la sua vitale opacità impediva che ci si soffermasse troppo a lungo su cosa potesse mai significare un’aderenza tra anima e mondo, diventa corpo estraneo non appena lo si classifica tra gli strumenti; soffocata da partes extra partes, anche l’anima smette ben presto di essere concepibile. È proprio per questo che le donne ripagano con la loro tenerezza i loro amanti soltanto dopo, quando tutto è finito: la gratitudine femminile è basata sulla memoria, non su un presente in cui lo scambio è tale solo ad uno sguardo altro: profodità del voyerismo, che osserva la scissione tra piacere maschile e femminile solo per pacificarli estrinsecamente, e trarre da essi un piacere terzo e finalmente conciliato. Dalla struttura di fuga o di «partenza» del piacere femminile deriva perciò a sorpresa una generale e ricattatoria lezione di moralismo, se per moralismo si intende il rifiuto della pura ed autosufficiente simmetria tra il sé e ciò che esso possiede: la conquista dell’oggetto sarebbe simultanea al dominio solo a patto che il dominio appartenga al campo della magia, e il dominante assomigli all’apprenti sorcier. Paradossalmente, si conquista l’oggetto lasciando che in esso si liberino delle forze centrifughe, e questo proprio nell’istante in cui si spera che la violenza duri eternamente. Bisogna sottomettersi ad una necessità esterna: la felicità è il premio che segue al più mieloso rispetto delle leggi.
A questo cosmo fatale è estranea la frigida, colei che è sempre presente e che non smette di sperare nella comunicazione immediata. Ha compreso che un corpo ridotto a strumento, in virtù della sua perfezione dionisiacamente eccedente, fa torto sia alla materia sia allo spirito, perché impedisce di fare a meno della loro distinzione. Economicamente simula il baratto, l’esclusione di un piacere-cartamoneta che appartenendo al sistema costringe ad immettere il proprio desiderio nel circolo dei beni comuni. Contrasta la brutta piega che prende il corpo quando si lascia andare, e la brutta piega è la scomparsa dell’anima dal mondo, quell’anima che proprio ora, netta ed erotizzata, doveva invece afferrare l’occasione per cancellare da sé la cattiva fama di vuoto fantasma orfico, che la perseguita da sempre. Lucida e sempre ad occhi aperti, a meno che non finga, la frigida si appropria di quel voyerismo che non è solo volontà determinata di possesso, ma anche e soprattutto identità tra sé e l’altro. Sacrificando il piacere alla conoscenza, si ribella all’obbligo di vedere la carne sotto la specie della mediazione e del simbolo; precipitando coscientemente nella propria materia, invece di lasciarsi trasportare da essa come su di un tappeto volante, libera l’uomo dall’equivoco e lo salva dalla condanna di Sisifo.

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