sabato 19 febbraio 2022

Una luce hemingwayana


 

Una volta Anna Lapenna, la moglie di Malerba, mi ha rivelato che quando conobbe Luigi non sapeva che scrivesse. Un giorno, però, lui dovette confessarglielo. "Sai, ho composto alcuni raccontini..." le disse quasi arrossendo. Lei si preoccupò. Di più, era pronta a troncare la relazione. Se non fossero stati buoni, quei "raccontini", non sarebbe mai riuscita a vivere accanto a lui. Ora, non voglio dire che Vittorio Macioce meriti un meridiano come Malerba - magari aspettiamo il secondo romanzo - però per anni chi lo conosce e gli vuole bene (e sono in tanti a volergliene, Vittorio è la persona più generosa che conosca) ha temuto la catastrofe. Il progetto, il "disegno", la minaccia di questo romanzo eternamente in cantiere era diventata incombente, nonché resa più temibile dal timore che il salto dal giornalismo al romanzo potesse fallire. Mi sembra di ricordare che una volta, messo alle strette, adombrò una vicenda alla Cesare Pavese, con la valle di Comino al posto delle Langhe, del John Fante vaporizzato nei vicoli, una luce hemingwayana... Per fortuna gli impegni da giornalista (grazie al cielo c'era sempre un governo vacillante da far cadere, un ministro da puntellare) gli impedivano di porre a termine l'opera, rinviando sine die l'istante universalmente temuto dell'apocatastasi. Quando è uscito il romanzo ho tirato un sospiro di sollievo: è buono, funziona e con il materiale narrativo che contiene si potrebbero scrivere tre o quattro romanzi normali: un'abbondanza di energia che spesso è presente negli esordi. La continuità con il giornalismo, o meglio con lo stile giornalistico di Vittorio, è evidente: nell'uso del tu e nell'accostare alto e basso, nobile e pop, colto e volgare; ma riguarda la microfisica del romanzo, non la struttura generale, che tiene. Inoltre non è mancata la sorpresa. Con una decisione apparentemente snob, di certo spericolata, invece di sceneggiare la sua vita Vittorio ha riscritto il romanzo di Angelica, l'eroina dell'Orlando furioso. In una pagina di Gadda - nella Cognizione del dolore, se ricordo bene - si racconta che il protagonista "amava leggere i romanzi". Gadda non si riferiva a Dickens, ma proprio ad Ariosto, cioè all'epica cavalleresca (i "romanzi cavallereschi", per l'appunto), come a dire quanto di più lontano si possa immaginare dal gusto contemporaneo. Dice Angelica (Salani, 304 pagg., 18 euro) è dunque un romanzo in costume, operazione di distanziamento che da qualche parte deve "rientrare", pena l'anacronismo o l'operazione supercolta, cioè il suicidio letterario. Ebbene, il nostos alla contemporaneità, è questa la sorpresa, risulta non solo agevole (con il senno di poi, naturalmente, tutte le difficoltà sono agevoli): l'Orlando furioso con le sue crociate letterarie mette infatti in scena uno scontro di culture: Occidente contro Oriente, cristiani contro musulmani. "Questo è il nostro western" (e un videogame, parola dell'autore). E' un materiale eccellente per discutere di differenze specifiche fra continenti, di mediazioni culturali e sordità reciproche fra nazioni. Inoltre è un materiale che si presta benissimo, con il suo intrinseco prospettivismo, al gioco illuministico delle turqueries, lettere persiane e micromegate (Ariosto recupera il viaggio spaziale di Luciano che poi, tramite il Cyrano libertino del Voyage dans les Empires de la lune, servirà da spunto a Voltaire). Prospettivismo focalizzato, però, sull'estraneo: Angelica viene da fuori, anzi, dal fuori del fuori, visto che è una straniera anche per gli infedeli. La protagonista, per farla breve, vede (ci vede) dal suo mondo, non siamo noi che la vediamo dal nostro. Un secondo elemento rilevante è che Angelica è una donna, vale a dire una figura che oggi più che mai è al centro di una serie di questioni a volte importanti, a volte esasperanti, spesso imprescindibili. Pegno di guerra in cerca di emancipazione, trasgressiva per indole, spregiudicata nelle sue scelte sessuali, Angelica è un ottimo ballon d'essai. Se non sono stato chiaro: la via al romanzo scelta dall'autore è consistita nel fingere di scrivere un romance e poi metterci dentro un novel. Aggiungo che Dice Angelica rivela alcuni punti forti e non si tratta di aspetti secondari, anzi: sono quelli che distinguono il romanziere di razza dal dilettante. Per cominciare, la padronanza delle scene, l'hic Rhodus hic salta del romanzo moderno: ognuna ha il potere di trasportare al centro della vicenda, con la forza dell'immaginazione e la caratterizzazione dei personaggi. Poi la scrittura, dove senza alcun oltranzismo bellettristico si rasenta il virtuosismo; sulla pagina sfilano frasi musicali articolate in una quantità di modi e polifonia di atteggiamenti narrativi talmente variati che potrebbero essere usate come pietra di paragone per misurare la ricchezza linguistica di qualsiasi romanzo. Infine, gli aspetti prettamente culturali rivelano un'altra sorpresa. Se qualcuno riteneva che l'equilibrato liberismo anarchico che caratterizza l'ideologia di Vittorio fosse incompatibile con la retrospezione, adesso dovrà ricredersi. Se Moby Dick è un'enciclopedia del mare, Dice Angelica è un'enciclopedia del Mediterraneo e dei tre continenti che ne definiscono i confini. Economia, storia, società, l'intera cultura in senso lato: tutto un mondo che abbiamo cominciato a dimenticare quando il baricentro dell'Impero, nel Seicento, si è spostato dal Mare nostro all'Oceano atlantico, trasformando il Mediterraneo in un'area marginale della Weltpolitik. L'elefante bianco di Carlo Magno, Aquisgrana, i paladini: quanti di noi, senza volerlo, hanno lasciato che nel nostro cuore si estinguessero queste specie culturali senza una lacrima, e senza che nessun WWF culturale si attivasse per denunciarne la scomparsa? Del resto, adesso nella Carta abbiamo un articolo espressamente dedicato all'ambiente, ma manca ancora un articolo dedicato alla lingua italiana. Recuperare quel mondo e farlo dialogare con la contemporaneità non è il merito minore di questo romanzo. Anche perché, come ha rivelato il significativo, se non smascherante, imbarazzo di alcuni lettori, anche di quelli più corazzati del cavallo di Orlando, Angelica è un esprit fort e la sua emancipazione non passa per la strada maestra, cosmopolitica e conformista del me too, ma per certi vicoletti nei quali si può incontrare di tutto, persino un cavaliere medievale che blocca il passaggio con uno specchio.

domenica 13 febbraio 2022

Un velo di vernice



Scrivo con colpevole ritardo del diario intellettuale e privato di Domenico Calcaterra (posso dire che è il critico letterario più simpatico? Una simpatia ben collocata fra le altre virtù, beninteso) e per scusarmi approfitto subito slealmente di una citazione da Emerson leggibile nell'Anno del bradipo. Diario di un critico di provincia  (Inschibboleth, 368 pagg., 26 euro): "The Hero is he Who Is immovably centred"; frase che si può accostare all'ormai ubiquo "Non ti disunire!" dell'ultimo film di Sorrentino. Evidentemente non sono un eroe e la dispersione che ne consegue ha un costo alto in termini di tempismo. Ma bando ai preliminari: leggendo il volume di Calcaterra ho la sensazione di attraversare un paesaggio domestico perché la "bolla" è comune: ricorrono spesso le figure di Massimo Onofri, Fabrizio Coscia, Andrea Di Consoli, Andrea Caterini e Filippo Laporta (il volume esce in una bella collana da lui curata), con le quali mi capita di interloquire viso a viso o su facebook. Sensazione raddoppiata dal plauso che Calcaterra rivolge ad alcuni autori del passato che mi sono cari (come Bonaventura Tecchi, germanista e grande affabulatore del quale un paio di anni fa ho usato l'incantevole Svevia, terra di poeti come guida nel corso di un viaggio in Germania). Stessa convergenza di opinioni per molti autori contemporanei, a cominciare da Morandini, alla cui scrittura si dà finalmente lo spazio che merita. A proposito, visto che in una pagina compare il nome del sottoscritto vorrei correggere una piccola svista, forse originata da una mia distrazione: l'uomo che Chiambretti in una trasmissione televisiva, dopo averlo sentito  rispondere alla prima domanda con un eloquio impostato e quasi teatrale, apostrofa con un "Bene, adesso può tornare a parlare con la sua voce normale" non è un poeta, ma Roberto Vacca, "il nostro amato tecnogeremia", come lo chiamava Manganelli. Aggiungo, per non dare l'impressione di unanimismo a prescindere, che a volte non sono d'accordo con le censure, ma lo sono sempre verso le approvazioni. Non solo: anche quando dissento ne condivido l'esperienza. Mi ha molto divertito vederlo stigmatizzare alcuni passi delle celebri Istruzioni per l'uso del lupo: furono esattamente alcune le pagine equivocabili come "baricchiane" a ostruire per me per anni la strada che conduce alle pagine di Emanuele Trevi, che oggi considero l'autore forse più importante di cui disponiamo (e spero che anche Calcaterra finisca per convincersene). Come tacere poi del fastidio - tollerante, ma inequivocabile - per i miti della folla? Come spiegare al barbiere che adora Camilleri che si tratta di paccottiglia, domanda spinosa sollevata nell'autoritratto foscoliano del 22 maggio? Di autoritratto c'è n'è anche un altro, ancora più orgoglioso e che spiega il titolo del volume, il 12 luglio. E c'è il comune legame con la provincia e la finestra aperta sul mondo della scuola.
L'anno del bradipo (il titolo è antifrastico: se c'è un critico che nasconde un motore sempre attivo e un'attenzione sempre vigile è proprio Calcaterra) dispiega un piacevole ritmo triadico fatto di note critiche indirizzate a scrittori, ma anche registi,  attori, altre figure pubbliche; di una prospettiva sociale, di periscopio verso un Paese che ha sempre suscitato negli intellettuali una quantità di sdegni, scandali, ire furibonde; e infine di una mitologia familiare non solo intima, ma "civile" in quanto si articola sui primi due momenti, quello letterario e quello di denuncia del malcostume. Così, per fare un esempio, la figura paterna scomparsa dell'Aviatore è presto incardinata a quella dell'autore di Staccando l'ombra da terra, Del Giudice, notoriamente appassionato di volo; dalla sorella, "la saettante e sgonnellante Basilisca", si fa partire con un espediente dialogico una catena di rimandi fra letterati: con Barnes che cita Ivy Compton Burnett intenta a rivolgersi alla compagna di una vita ormai scomparsa. Tanto per cambiare, anche Ivy Compton-Burnett è una delle mie autrici preferite. Su questo punto, sui ricordi familiari, mi sembra doveroso sottolineare la "differenza" di Calcaterra: l'autore non vuole far soffrire il lettore con i suoi lutti, l'aspetto emotivo è ben custodito e non scodellato sulla pagina. Quando Calcaterra descrive il tramonto dell'Aviatore e di Basilisca lo fa con totale sobrietà, direi con metafisica leggerezza, in modo da offrire al lettore il "fatto" del declino senza obbligarlo a pagarne il prezzo.
Naturalmente Calcaterra è in primo luogo un critico letterario e al centro de L'anno del bradipo c'è un dialogo serrato e disserrato con gli scrittori. Il ritmo del diario impone la stoccata; sono note quotidiane, non operazioni chirurgiche di sei ore, sempre ricche di intuizioni e di spunti radicati nelle copiose letture che si intravedono sullo sfondo e che il lettore specialista potrà sviluppare. Ottocentesco nell'indole un po' per posa e un po' per necessità (non è che la contemporaneità sia tanto attraente...), L'anno del bradipo è dominato dalla letteratura del Novecento. Chi avrà il piacere di percorrerlo nella sua interezza vedrà giungere nelle pagine finali l'ospite indesiderato, la pallottola pelosa del virus. La pandemia stende un velo di vernice sulle riflessioni quotidiane dando loro una strana compiutezza; forse perché L'anno del bradipo è un diario oggettivo, in dialogo non solo con la letteratura, ma con il mondo, ed essere costretti a fare jogging in casa per colpa del Covid 19 non è proprio il massimo dell'estroversione.

sabato 9 ottobre 2021

Quasi sempre soccorrevole




 Nella collana "Margini", diretta da Filippo La Porta per la casa editrice romana InShibboleth, è uscito qualche mese fa il secondo romanzo del casertano Francesco Borrasso, Restare vivo. Il primo, che ha rivelato l'autore all'attenzione dei lettori, è stato La bambina celeste (Ad Est dell'Equatore, 2016); dominato dal tema della scomparsa di una figlia (una scomparsa finzionale) ha fatto pensare subito alle opere di Philippe Forrest, ma il volume in realtà alludeva cifratamente a un trauma diverso che adesso, nel romanzo recente, emerge in piena luce. Restare vivo è un viaggio al termine della notte della depressione, descritta con il pathos del topo che cerca disperatamente di uscire dal labirinto avendo come alternativa, in caso di fallimento, il suicidio, che aleggia in ogni pagina. Il sole nero sorge a ventisette anni, ma incuba nell'adolescenza, configurando una vasta stagione di sofferenza. Su un piano ideologico, l'arco della narrazione ricapitola la filosofia della storia cristiana: all'Eden originario segue la Caduta che apre una fase di difficoltà durata fino al momento in cui giunge la Redenzione. L'Eden è rappresentato dall'infanzia e dall'adolescenza, la Caduta da alcune esperienze dolorose sulle quali ci soffermeremo e soprattutto dalla morte del padre, un argomento centrale nelle ultime stagioni della letteratura italiana come mostrano i romanzi di Albinati, Magrelli, Caterini. La Redenzione passa attraverso la capacità riconquistata di progettare e realizzare un'opera letteraria: l'ipotesi salvifica che scrivere un libro possa salvare è inverata dalla pubblicazione della Bambina celeste, grazie alla quale si esce dal tunnel. E' opinione di chi scrive che tale "conquista della scrittura" debba essere intesa meno come un sogno letterario e più come allegoria di una vittoria più profonda, non limitata a quel campo.

Restare vivo si apre con una lettera aperta al padre scomparso materiata in una sequenza di ricordi. Siamo condotti in un mondo fatato e già perduto perché distrutto dal lutto. La vita della famiglia viene trasportata in un dimensione assoluta, priva di coordinate spaziali e temporali. Percepiamo che siamo nel Meridione, intuiamo il lavoro del padre. Le pagine felici della storia, diceva Hegel, sono pagine bianche; qui si potrebbe aggiungere: anche della storia familiare. Non è vero, del resto, che il bambino e anche in parte l'adolescente in Occidente viva in una sorta di pseudo-mondo dove denaro, divisione del lavoro e potere non giocano alcun ruolo? E' un Eden, per l'appunto: i verts paradis di Baudelaire non riguardano solo gli amori infantili, tutta l'esistenza dei bambini è o dovrebbe essere un paradiso verde dove regna la gratuità. Lo stile, che nelle prime pagine potrebbe sembrare a rischio di poeticismo, con questo padre angelicato e quasi sempre soccorrevole, è in realtà mimetico; le scene di un'infanzia serena, anche se venata di inquietudine, si articolano in una sequenza di vetrofanie, di impressioni soprattutto visive fatte di riflessi e di lampi; figure emblematiche e diafane si danno il cambio come allucinazioni, in una sorta di processo primario dove non c'è differenza fra la realtà e il sogno, indistinzione che anticipa le conseguenze di una nevrosi dove è impossibile distinguere fra verità e illusione. E, tuttavia, già nell'infanzia un primo et in Arcadia ego incrina il cristallo: la visita a una parente malata turba profondamente il bambino; per tacere dell'episodio, quintessenzialmente letterario, dello schiaffo del padre. Oltre allo schiaffo subìto da Zeno, potrebbe evocare il ceffone assestato da Zeus nel Prométhée mal enchaȋné di Gide visto che configura un atto gratuito o quasi gratuito, nonché l'innesco (tardivo, goffo, inefficace perché brutale e indecifrabile) di un Edipo. E' come se il padre del narratore decidesse di punto in bianco di uscire dal ruolo di dispensatore d'amore e di protezione per assumere il ruolo, tipicamente paterno, di mediatore fra l'individuo e la legge. L'episodicità di questo scatto, la sua non sistematicità, almeno per come emerge dalle pagine del romanzo (è superfluo ripetere che qualsiasi autobiografia solleva interminabili questioni attinenti alla sua credibilità) potrebbe spiegare la successiva nevrosi del figlio.

Quando si verifica il crack up mentale Francesco è ormai anagraficamente un uomo e lavora al terminale di una sala scommesse. Il posto, che forse condurrebbe alla follia chiunque, configura uno spazio allegorico, legato com'è all'alea del gioco d'azzardo, processo che ipoteca ogni progetto e ogni futuro; per tacere del fatto che un "terminale" - cioè, si presume, uno schermo - separa il protagonista dalla realtà. Il passaggio alla fase delle allucinazioni - in Restare vivo accanto alle crisi di panico e alla melanconia si assiste a episodi apertamente psicotici: in alcuni passi le allucinazioni ricordano per il loro aspetto terrificante gli effetti del laudano descritti nelle Confessioni di un oppiomane inglese di De Quincey - viene predisposto da un impiego quotidiano connesso all'irrealtà. Da lì, in pochi drammatici passaggi, si precipita nel buio della depressione: perduto il lavoro, interrotti i rapporti con gli amici, la luce dell'esistenza si spegne lasciando il posto a un incubo claustrofobico e centripeto dove tutto è cause célèbre, serie di effetti senza cause. Un primo ricorso alla psicoterapia si interrompe di fronte alla brutale sincerità della dottoressa ("sei pazzo, Francesco"); due mesi dopo muore il padre. Mentre il mondo esterno si dissolve, inghiottito da una vorace annihilatio mundi, per un contraccolpo compensativo Francesco si ritrova condannato a una sorta di endoscopia: l'attenzione si sposta sul corpo o al massimo sui vestiti e gli oggetti immediatamente presenti.

Prendiamo sul serio il titolo, "restare vivo", formula anomala ed estranea all'italiano standard. Qual è la differenza fra vivere e restare vivi? E fra restare vivi e sopravvivere? Restare vivi è più che "sopravvivere" perché implica una forma di resistenza. Allude all'imperativo di mantenere un punto fermo, una posizione residuale meramente biologica in attesa che da essa scaturisca il vivere, cioè un processo non angosciato dall'emergenza. Come detto, nella guarigione svolge un ruolo l'ambizione letteraria dell'autore, cui si lega un valore taumaturgico. L'ipotesi di lettura che avanziamo è che, fatta la tara del dolore, vi sia continuità fra l'infanzia e la nevrosi; quest'ultima è ad un tempo l'intensificazione infernale di qualcosa di già attivo -  una seducente fantasmagoria di lotofagi - e la sua manifestazione capovolta. A tale ipotesi interpretativa può essere mossa l'obiezione che l'immagine favolosa, ma erosa e depauperata dell'infanzia e dell'adolescenza che giunge al lettore appartenga al congegno letterario, alle sue necessità architettoniche; oppure che essa sia una conseguenza della stessa depressione, che agisce retrospettivamente rendendo inattingibile la ricchezza della reale esistenza del protagonista (quel tipo di descrizione sarebbe tale cioè in quanto "notizia dall'inferno", visto che l'autore ne parla dopo essere precipitato nel pozzo della depressione). O ancora, che la descrizione abbia una forma deprivata perché la depressione lascia dietro di sé un cono d'ombra che fatica ad estinguersi. Sono obiezioni plausibili, ma riteniamo che cedere alla tentazione di adombrare una lettura che ignori tali obiezioni abbia il pregio di allontanare il romanzo di Borrasso da un genere letterario che il Novecento ha trasformato in "maniera" ("i romanzi basati sui ricordi d'infanzia sono parchi della rimembranza", ha scritto una volta Alberto Arbasino). Veniamo al punto. E' chiaro che la volontà del narratore non è di isolare una patologia antropologico-sociale. Però Restare vivo può essere letto in questo senso. E' una radiografia non dell'elaborazione del lutto, ma della sua impossibilità. In un saggio di Clifford Geerz uscito qualche anno fa per le edizioni del Mulino si racconta la morte di un giovane balinese e la sopravvenuta impossibilità di elaborare il lutto, dell'inceppamento della routine che di solito si innesca in quel caso. Geerz dimostra che l'empasse e le conseguenze drammatiche che ne seguono sono legate alle trasformazioni incontrollabili della società balinese. Se lo scopo della cultura è anche di neutralizzare la finitudine umana, di cui la morte è l'epitome, "elaborazione" significa che due entità separate, natura e cultura, iniziano a dialogare; se la natura ("nostra ignuda natura" è, per Leopardi, la morte) si fa cultura, la morte smette di essere un fatto, un positum e diventa un momento della cultura. Tale dialogo, che l'assurdità della morte rende urgente, quando si tratta della vita può essere rinviato, ma non a lungo. L'ipotesi di una "vita nuda" - come recita una formula molto discussa resa celebre dalla recente filosofia italiana - che metta in contatto diretto l'esistenza naturale e un mondo descritto fisicalisticamente è insostenibile. In Restare vivo si denuncia implicitamente una forma di anomia; la morte del padre, fra l'altro, non è l'innesco della depressione, ma la sua intensificazione. A mancare era un sistema culturale in grado di sostenere non la morte, ma la vita.

Torniamo alla grammatica esistenziale che la pagina di Restare vivo riporta, alla sua "economia". Si tratta di una grammatica totalmente familiare dove la "società civile" (amici di famiglia, colleghi del padre, compagni di scuola) rimane sullo sfondo; se Restare vivo fosse una fotografia, si direbbe che il fotografo ha deciso di mettere a fuoco solo due, tre figure e di sottoporre a un marcato bokeh quel che resta dell'universo. Le stesse figure familiari sono rese attraverso una serie di emblemi, di simulacri, di azioni trasmessi lungo i canali sensoriali (colori, odori, sensazioni tattili ecc.,) indirizzati a una rappresentazione del protagonista come infans, con rare escursioni nel campo del linguaggio verbale. Si parla poco in questo romanzo che tende heideggerianamente all'hören, all'ascolto, e non tanto delle parole degli altri, quanto del propro corpo in balia di forze sconosciute. In un passo del romanzo, Francesco si chiede come fosse possibile, prima della depressione, camminare, guidare, stare con gli altri. Appunto: tali azioni, apparentemente naturali e autoesplicative, sono impossibili se non si ammette l'organicità multidimensionale della vita. Leggiamo dunque di alcuni "amici" che non hanno nome, apprendiamo di un "lavoro" di cui si sa solo che si svolge davanti a un terminale della sala scommesse, di "
colleghi" anche loro anonimi. I nonni sono indicati con l'iniziale, nonno N. e nonna V. Se incontrassimo per strada il fantasma del padre di Francesco, faticheremmo a distinguerlo da qualsiasi altro fantasma di padre. Delle "vacanze" si sa solo che sono al mare e che c'è una spiaggia. Il problema non riguarda il mancato utilizzo del trucco, suggerito dalle scuole di scrittura creativa, di soffermarsi sui dettagli irrilevanti per creare un "effetto realtà"; non è, cioè, compositivo, ma culturale.  Anche le metafore, molto efficaci, sono come in Ovidio prese dalla sfera geometrica o idraulica o meccanica: il ventre del nonno pieno di vino, i capelli che drizzano sulla nuca, la "sconfitta pesante": linguaggio figurato che suscita effetti stranianti perché il mondo in cui è immerso l'essere umano non è una macchina, è un organismo e un intreccio di semiotiche. Purtroppo tale intreccio nel mondo contemporaneo è intellettualmente invisibile; non a caso viene colto solo istintivamente e poi messo da parte come quantité négligéable a vantaggio di altre componenti dell'essere umano (la cultura in senso classico, la scienza, il lavoro). Quando manca del tutto, però, l'individuo crolla e allora bisogna correre ai ripari con una mossa di aggiramento. Non è possibile, per un malato, vedere apparire di colpo il convitato di pietra; bisogna invece acciuffare la guarigione prima che tali osmosi siano ripristinate, contraendo una sorta di debito provvisorio con la società. Con il che giungiamo al secondo aspetto che nella vicenda di Restare vivo ci sembra rilevante. Il lettore non sa perché l'autore di questa cronaca o diario della disperazione soffra e può solo avanzare alcune ipotesi (per esempio, la visita alla parente impossibilitata a muoversi è una sorta di "battesimo del terrore"). La rinuncia a capire, a inchiodare il malessere a una causa curabile, rinuncia senza la quale il romanzo di Borrasso si trasformerebbe in un giallo alla Sherlock Holmes, cioè in un giallo di tipo arcaico dove il detective, qui la psicologa, scopre il responsabile del malessere come Newton scopre la teoria della gravitazione universale, stacca Restare vivo dai tanti racconti di depressione (il capostipite recente dei quali è l'Houellebecq di Estensione del dominio della lotta, in cui l'assassino viene indicato già nel titolo) perché configura un rapporto con la malattia mentale di riconoscimento. Il protagonista vuole sottrarsi al giogo della depressione, ma non attraverso una risposta: attraverso un percorso. La psicologa che lo cura, con una mossa geniale, lo spinge a non chiedersi quale sia la causa originaria del male, ma piuttosto a gestire il male nel presente, a elaborarlo, a trovare un sistema grazie al quale trasformare quello stato, attraverso un atto quasi magico, dall'empasse che era in uno slargo, in una piazza, senza credere di poter uscire da una condizione patologica come si esce da una gabbia. Non è solo una tattica, e se lo è si tratta di una tattica fondata su un atteggiamento fenomenologico, alternativo all'imputazione scientifica delle cause. Che tale trasformazione sia fatta passare per l'ambizione letteraria è significativo: perché se la letteratura ha un senso irriducibile alle altre forme di conoscenza, di certo risiede nella sua capacità di farsi carico di ciò che non può mai essere "risolto", ma solo accettato.


lunedì 26 aprile 2021

Non mancano i campi


Vi si cita un sestriere e non mancano i campi, quindi sarà Venezia la Lopezia nella quale Ezio Sinigaglia ha ambientato L’imitazion del vero (Terrarossa edizioni, 101 pagg., 14 euro), una novella che a prima vista sembra uscita dal Decamerone. L’opera più nota dell’autore, Il pantarèi, è uscita una prima volta nel 1985 ma poi, diventata un libro di culto per avveduti ed esigenti lettori, ha avuto tempo fa una meritatissima seconda edizione. Stavolta siamo in un secolo fiabesco che evoca, oltre a Boccaccio, gli intrecci tipici del melodramma barocco. Al centro della vicenda c’è Mastro Landone, che definire falegname proprio non si può: egli è l’artefice più richiesto a corte, dove regna il principe Tancredi IV. Gigantesco, biondissimo, desiderato da tutte le donne di Lopezia, Mastro Landone vive non del meccanicismo raggelante di Descartes o di Galileo, ma di quello giocoso  e superfluo degli ingegneri alessandrini: sedie che premendo una leva si trasformano in tavoli, ordigni di ogni tipo che si muovono da soli, attrezzi che a comando fumigano come vulcani. Sarebbe felice, Mastro Landone, se non avesse gusti sessuali severamente censurati, puniti con il taglio delle orecchie e la gogna pubblica; spauracchio che diventa minaccia concreta il giorno in cui un nuovo, irresistibile garzone bussa alla porta della bottega. Come mettere a questo punto il diavolo in inferno, beffare la legge omofoba e lasciare che la natura segua il suo corso? Mastro Landone rimuove alcune assi dell’impiantito, sega in due una botte, ne inchioda la metà superiore al pavimento e poi ne riveste il bordo interno con alcuni fuscelli, in modo che chiunque vi entri non veda quel che accade dalla cintola in giù. E’ la “botte di Paradiso”, un’audace soft machine nonché eloquente allegoria di quel che accade quando lo Stato si mette di traverso sulla strada della coscienza: non ne viene fuori, come minimo, un uomo tagliato in due? Va da sé che il garzone salterà nella botte appena possibile, traendone un godimento parente del sesso virtuale e del sex appeal dell’inorganico, come avrebbe detto il filosofo Mario Perniola. Sinigaglia ha scritto un delizioso pastiche che grazie a una trama malandrina, una psicologia convincente e uno stile amabilmente desueto riconcilia con la letteratura. E il titolo della novella deve far riflettere: siamo nel campo della glorificazione dei simulacri, senza la quale, si dice in giro, non c’è libertà.

giovedì 19 marzo 2020

Il mucchio selvaggio al tempo del coronavirus

Il mucchio selvaggio al tempo del coronavirus

Al tempo del coronavirus, il gioco delle parti e la topologia “Bene vs Male” è mutuato dalla retorica puritana. Da una parte la ragione (medici, scienziati, virologi, epidemiologi), dall’altra la farragine delle persone irrazionali, farragine la cui creazione per accumulo (si tratta di un mucchio) svela la matrice etnocentrica se non xenofoba degli “illuminati” che la pongono in essere (li chiamerò così, con tanto di virgolette, per distinguerli dagli illuministi del Settecento che erano più simpatici, intelligenti e sensati). Il mucchio selvaggio è costituito da coloro che dividono una visione magica o mistica della natura; dai nostri primitivi, las indias de para aqui; dagli analfabeti scientifici; da chi pur non essendo un analfabeta scientifico odia la scienza, eccetera.
Come detto, una simile self-flattening divisione dell’umanità in due parti, gli illuminati da una parte, gli accecati dall’altra, è un’opposizione di matrice religiosa: calvinista e precisamente puritana. Sento anche il bisogno di aggiungere una seconda osservazione: mi dispiace per le idées reçues degli illuminati, per il loro cosmo diadico e gerarchico, ma popoli non solo al di qua della rivoluzione scientifica, ma senza scrittura e che vivono allo stadio paleolitico attuano forme di controllo delle epidemie analoghe a quelle suggerite dall’OMS. Isolamento, distanziamento sociale, rarefazione dei rapporti fra le persone. Ciò accade perché in questo caso i primitivi si dimostrano lucidamente razionali? No: semplicemente sono più accorti e più buoni di noi.
Bene, stravolgerò questo gioco delle parti. Ipotizzerò che oggi, con il coronavirus tra i piedi, i comportamenti lesivi della propria e dell’altrui salute si basano su una visione (aberrante, oltre che epistemologicamente fasulla e scientificamente paralizzante) tipica degli albori della Rivoluzione scientifica.
Prima, però, vediamo come ragionano gli illuminati. Chiusa la strada – da loro sempre privilegiata, in questo caso purtroppo impervia – del radicalismo assoluto e apodittico (del tipo: il coronavirus è una peste che contagia a distanza e uccide il 100% dei contagiati e chi non lo capisce è cieco; oppure: il coronavirus è una normale influenza che non deve destare troppe preoccupazioni e chi non lo capisce è sordo), è giocoforza sviluppare una doppia censura: verso chi si lascia prendere dal panico e trema come una foglia se solo lo sfiora un passante; e verso chi ignora totalmente il pericolo.
I primi, gli “impanicati”, sarebbero “primitivi”. Uso condizionale e virgolette perché dare del primitivo a un uomo che non sa leggere e scrivere è una mostruosità, ma gli illuminati non hanno di questi scrupoli perché per loro gli unici uomini veri sono quelli “evoluti”, agli altri mancherebbe qualcosa, sarebbero dei minus habens. I terrorizzati dal virus sarebbero “primitivi” perché esagerano in un senso, lasciando il libero corso a paure che saranno definite, con compiacimento, ancestrali, ataviche, animali e così via, mobilitando il corrusco vocabolario di aggettivi che gli illuminati infliggono a chiunque osi sostenere che ci sono al mondo di più cose di quante ve ne siano nelle loro matematiche.
E i secondi? Ebbene, sono “primitivi” anche coloro che si danno al fatalismo, come tanti don Ferrante che muoiono di peste perché la peste non è né sostanza né accidente. Fatalismo che peraltro non desta la curiosità intellettuale degli illuminati e che dunque (e anche questa negligenza è rivelatrice) non viene indagato, sebbene forse alcune ipotesi (cupio dissolvi, thanatos freudiano, mancanza di speranze, gelo spirituale e morale, taedium vitae) potrebbero riservare qualche sorpresa.
Quale strategia, a questo punto, raccomandano di seguire gli illuminati? Un percorso intermedio fatto essenzialmente di due cose: di prudenza e consapevolezza che con le epidemie siamo di fronte a fenomeni di tipo probabilistico.
Cominciamo con il concetto di probabilità. La ragione per la quale la gente fuma, mangia male, guida in modo pericoloso e, udite udite, nei giorni del coronavirus tocca il pulsante per avere il verde pedonale al semaforo e poi si mette le mani in bocca o si stropiccia gli occhi è che si tratta di azioni che appartengono, direbbe Aristotele, al campo del “talvolta” o del “per lo più”. Ci si può infettare, ma solo talvolta. Per lo più ci si infetta, ma talvolta no. Bene, sapete che ruolo gioca il calcolo della probabilità nelle pagine di Galileo o di Cartesio? Nessuna. Entrambi imbastiscono una lettura dei fenomeni naturali che passa solo attraverso la mathesis universalis. Ora, il campo delle matematiche è un campo in cui vale la logica apodittica del vero e del falso. Un calcolo o è eseguito correttamente, e allora è vero, o no, e allora è falso. La seconda legge di Keplero o è vera o è falsa. Questo matematismo ristretto, rilevabile nel famoso passo di Galileo del Saggiatore in cui si afferma che la natura è scritta a caratteri matematici, e chi non la conosce non capisce niente della natura; e nel passo giovanile del sogno di Cartesio in cui si suggerisce di ragionare con il metodo dell’est et non, cioè con una logica binaria e poi in infinite altre pagine (nelle Regulae ad directionem Ingenii, nel Discours de la Méthode, nelle lettere) condanna all’oscurità qualsiasi area del sapere in cui la logica apodittica dell’est et non, del vero falso, non si applica. Questo è il punto che mi interessa sottolineare. Già nella seconda metà del Seicento, con Pascal e soprattutto con Leibniz, si metterà mano a una matematica della probabilità, che però oggi nel senso comune evoca immagini molto lontane dal laboratorio dello scienziato: evoca, piuttosto, il tavolo verde della roulette e le carte da poker. Per l’uomo della strada la scienza è apodittica o non è. In altre parole, alcuni con l’epidemia in corso si sono comportati in modo autolesionista perché l’immagine predominante che si ha della scienza non contempla le leggi dei fenomeni probabilistici e anzi le tratta alla stregua di pseudo-leggi, come aveva fatto Cartesio quando nel Discours aveva equiparato il probabile al falso. L’uomo che tocca il pulsante del semaforo e poi si mette il dito in bocca non è distratto: sta applicando alla lettera l’epistemologia di Descartes e di Galileo.

E adesso veniamo al secondo suggerimento offerto degli illuminati, l’accortezza. A che titolo, in questo caso, parlano? A me sembra che la saggezza pratica abbia poco a che vedere con la scienza e molto con la prudenza, virtù che come tutte le virtù non appartiene al campo del sapere ma al campo della morale. La prudenza, come le altre virtù, per Aristotele è il medio fra due vizi. E allora, perché non si riconosce il carattere efficace di questo tipo di prudenza? Perché si tratta di una virtù morale (ripeto, non un sapere: una virtù), che purtroppo a differenza del lumen naturalis vantato da Cartesio è distribuita nel genere umano in modo non uniforme e con una difformità che non passa attraverso l’opposizione fra cultura scientifica e cultura pre-scientifica (dividendo i popoli evoluti dai popoli selvaggi) perché è interna a tutti i popoli. Dimenticarlo costituisce una rapina epistemologica nei confronti delle aree dell'azione umana cui appartengono le questioni qui discusse: la morale e soprattutto la politica.

mercoledì 12 febbraio 2020

L'orpello dell'arte





Qualche anno fa, la prima pagina del supplemento letterario di un noto quotidiano francese riportava un’immagine sorprendente. Alcune migliaia di lavoratori in sciopero sfilavano lungo le strade di una grande città americana. Si scorgevano gli striscioni, le trombette, si intuivano i canti e gli slogan. Lo stupore arrivava con la didascalia: non erano metalmeccanici, erano impiegati del settore della narrazione. Una legione di sceneggiatori, romanzieri senza nome, inventori di storie per fumetti e serie televisive. Sembravano involontariamente confermare le tesi della cosiddetta biopoetica, la teoria secondo cui la migliore definizione dell’essere umano non è homo sapiens sapiens – il nostro pianeta ridonda di società che ignorano la scrittura, il calcolo avanzato, la razionalizzazione spinta – ma homo narrans. Visto che, a quanto pare, siamo creature che hanno bisogno di storie come di aria per respirare e acqua per dissetarsi, l’industria culturale offre una quantità enorme di racconti. Il problema di questo modo di intendere le cose è che la letteratura guadagna qualcosa – le storie smettono di essere un hobby cui ci si dedica nel tempo libero e diventano una necessità imprescindibile – ma perde la possibilità di valere come una palingenesi. Quando Alberto Arbasino chiese a Pierre Klossowski perché si scrive, l’autore del Bafometto rispose che era un atto di libertà in un contesto di folklore. Ma si può andare oltre e dire che la letteratura è uno strumento di resurrezione: come da sempre sostiene Andrea Caterini e come viene ribadito nel recente Romanzi e paesaggi, (Castelvecchi, 288 pagg., 22 euro). Si tratta di una raccolta di interventi, saggi e recensioni, molte delle quali apparse una prima volta sulle pagine del Giornale. Intellettuale vorace e appassionato, Caterini esclude risolutamente dal suo orizzonte la romanzeria di mestiere, alla quale non dedica un rigo, e quando sfiora autori (per esempio la Némirowsky) in sospetto di furbizia e con l’aggravante della bravura, una bravura inutile e che, cessata l’eco dell’applauso, lascia svuotati, lo fa solo per sottolineare il costo esorbitante della superficialità. Meglio sorvolare, poi, per carità di patria, su cosa pensa degli scrittori italiani più apprezzati e popolari, la cui lista è del resto facilmente reperibile visto che coincide con il palmarès dei premi più importanti, dallo Strega in giù.
Naturalmente se la letteratura è la specie di un genere che rassomiglia a una religione millenarista, promessa utopica d’evasione dalla vita banale, la tendenza sarà a non perdere tempo e a occuparsi di temi abissali: l'io, la realtà, la verità. Romanzi e paesaggi si apre con una disamina del Tractatus di Wittgenstein, l’opera più mistica del grande filosofo viennese, e anche in seguito non abbandona il gusto per la speculazione, a costo di dissotterrare il racconto più filosofico di Jerôme (sì, quello di Tre uomini in barca), di isolare la filigrana in ultima istanza metafisica del mondano Proust, cui sono dedicate pagine audaci e perfettamente convincenti o di ridurre all’osso, in questo caso all’opposizione fra “legge del mondo” e “sublime” quell’anima bramosa di assoluto che fu Malcolm Lowrie. Attenzione però a non cadere in un equivoco: anche se del romanziere si sollecita la risposta a un problema filosofico, esistenziale o morale Caterini è troppo intelligente per non sapere che qui, davanti ai piedi del critico, attende una trappola. Già Aristotele osservò con qualche perfidia che una tragedia può discutere argomenti importanti (per esempio la schiavitù, trattata con spregiudicatezza dai personaggi di Euripide) e tuttavia mancare di ottenere l’effetto drammatico. Il critico non può scambiare un romanzo per una complessa allegoria, sciolta la quale la tesi in esso celata viene esposta senza l’orpello dell’arte, ma deve lanciare a se stesso una sfida: quella di mostrare che il tema è inscindibile dallo stile, con il quale letteralmente fa corpo. Liberare il concetto di stile dall’ipoteca decadente e restituirlo alla sua dimensione radicalmente antropologica e, al limite, mistica: questo è il compito che Caterini si è posto e che in queste pagine viene portato a termine una quantità di volte, si tratti di enucleare le elusive strutture dei romanzi di Franco Cordelli, di sviscerare le ossessioni di Francesco Permunian o di ricostruire il cosmo morale di uno scrittore amato come Paolo Del Colle.
Si è parlato di resurrezione, e occorre precisare che questa parola non deve essere intesa in senso apocalittico. Per citare un passo molto eloquente su Proust: “questa resurrezione non potrà che essere la resurrezione di un Lazzaro e mai quella di un Cristo.” E a proposito di apocalisse e di apocalittici: la raccolta contiene anche alcuni interventi polemici o per meglio dire inattuali (nel senso di Nietzsche) uno dei quali si apre con una frase provocatoria, “La mia generazione non esiste”. Sarà vero? Dopo aver chiuso il volume si ha l’impressione che invece esista, e goda di buona salute.

sabato 17 agosto 2019

Lo stesso fumo



Nelle pagine iniziali di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, un personaggio racconta la trama di un vecchio film con Peter Lorre, “Le mani di Orlac”. Orlac è un pianista che ha perduto le mani in un incidente, ma un chirurgo decide di sfidare il destino e gli innesta le mani di un assassino appena ghigliottinato. L’operazione riesce, ma qualche settimana dopo il pianista inizia a sospettare di essere l’attore principale di alcuni omicidi, che avrebbe commesso in stato di trance. D’altronde ad uccidere sono le mani, non lui, per cui il sospetto, seppur allarmante, non implica alcuna assunzione di responsabilità da parte di Orlac. Invano il chirurgo tenta di convincerlo che non sarà facile scampare alla forca; che non sono le estremità a comandare, ma la testa e il cuore…
Leggendo Germania segreta di Furio Jesi, che a distanza di cinquant’anni dalla sua prima apparizione la casa editrice Nottetempo ristampa ora con la curatela di Andrea Cavalletti (281 pagg., 18 euro), il film con Peter Lorre appare per quello che è: un’allegoria delle più cupe vicende mitteleuropee. Basta sostituire Orlac con i tedeschi, la testa con la letteratura di quel popolo e le mani con Hitler, e il gioco è fatto. A patto, naturalmente, di ammettere che le mani possano essere separate dalla testa, ciò che Jesi cerca di dimostrare percorrendo con sconfinata erudizione alcuni temi centrali della cultura tedesca fra cui la kore, vale a dire la giovane donna seducente, la metropoli espressionista e le immagini di morte che affollano il décor vegetale di fine secolo; di volta in volta chiedendosi se Thomas Mann e Rilke, Wagner e Wedekind abbiano peccato di intelligenza con il nemico, passando da un’involontaria fascinazione per il demoniaco a una deliberata scelta in direzione del male. Dove il male è, per l’appunto, la “Germania segreta”, formula che dà il titolo a una lirica di Stefan George, ricompare in un discorso di Norbert von Hellingrath per designare “quell’anima tedesca, celata e travisata, cui Hölderlin volle attribuire la missione di una rinascenza della grandezza della civiltà classica” e infine viene pronunciata come un testamento dall’attentatore di Hitler Claus von Stauffenberg, le cui ultime parole prima di essere impiccato per ordine del Führer “come un animale”, con ganci da macellaio e corde di pianoforte, furono “Es lebe das geheime Deutschland”, “Viva la Germania segreta”. Kantorowicz, che come i fratelli Stauffenberg era un membro del circolo di Stefan George, raccontò che nel 1924, assieme ad altri esponenti del “Kreis” di George, aveva deposto sulla tomba di Federico II di Svevia a Palermo una corona d’alloro che recava la scritta “Ai suoi imperatori ed eroi. La Germania segreta”. La formula evoca il vagheggiamento di uno stato originario della Nazione, un paradiso aristocratico della cultura la cui sopravvivenza è minacciata dal capitalismo, dalla democrazia e anche dagli imbianchini austriaci. Jesi, però, articola la lettura politica in un orizzonte più vasto: “Germania segreta” è “il simbolo di quegli abissi della psiche umana in cui il dio di amore e il demone del male sono nomi senza significato, una riserva di immagini dalle quali l’uomo può essere sopraffatto. Tale sopraffazione si colloca al di fuori di una morale della responsabilità. Responsabile è unicamente il comportamento di chi, dinanzi all’affiorare delle immagini dell’inconscio, le accoglie lietamente quali determinanti delle sue azioni o addirittura quali oggetti di devozione”.
Esemplari, da questo punto di vista, sono le pagine dedicate allo scrittore che più di chiunque altro ha rasentato la sfera della pura perdizione, Thomas Mann, e in particolare al Doktor Faustus, il romanzo in cui la “Germania segreta” è il villaggio mitologico nel quale il protagonista Adrian Leverkühn decide scientemente di tornare, inabissandosi nella propria pulsione di morte. Ma la lista delle opere d’arte in cui tale pulsione si sarebbe manifestata è sterminata: dosi abbondanti di “Germania segreta” cantano nella notte del Tristano e Isotta di Wagner, dominano La morte di Virgilio di Broch, ammiccano nei Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. Fra le righe, torna a risuonare la domanda essenziale: in che misura la cultura tedesca, grondante morbosità, è stata complice dell’apocalisse nazista? Una cultura che per centocinquant’anni flirta impunemente con la morte può, ad Europa distrutta, proclamare la sua innocenza? Domanda spinosa; anche Siegfried Kracauer, quando traccia una linea retta dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, va a caccia delle prefigurazioni del nazismo nel cinema dell’espressionismo tedesco, ma non ipotizza mai un rapporto di causa ed effetto e soprattutto si guarda bene dal sostenere che quelle pellicole furono le incubatrici della dittatura. Jesi è più vicino, semmai, al Lukács della Distruzione della ragione, convinto come lui che le idee abbiano delle conseguenze (a volte tragiche).
Bisogna dire che come accade in certi processi un po’ farseschi alla fine Jesi assolve tutti, o quasi; Mann e Brecht, per esempio, vengono assolti grazie all’attenuante della parodia, cioè del distacco critico nel confronti del sulfureo materiale trattato. Geoffrey Firmin, il protagonista alcolizzato di Sotto il vulcano, avrebbe dissentito: forse le mani – forse certe mani – avranno acquisito una loro autonomia; e tuttavia “certi errori sono imperdonabili…”
 

***


La questione alla base di Germania segreta: la Germania ha innescato due guerre mondiali. Che ciò sia la conseguenza delle fiabe dei fratelli Grimm, lugubri quant’altre mai, della simbologia funebre di legioni di poeti tedeschi, dell’angoscia emanata da quadri celebri e ideologicamente ambigui (e anche un po’ comici) come “L’isola dei morti”?

Il plot è quello dell’apprendista stregone o, se si vuole, del bambino che gioca con i fiammiferi. Perché il bambino gioca con i fiammiferi? Per divertimento, o perché è affascinato dal fuoco? E se lo è, non è che magari poi gli viene voglia di appiccare il fuoco alla casa? Mettiamo di no: in questo caso, chi ha giocato con il fuoco per tutta la vita senza scottarsi o quasi, è responsabile se poi i suoi connazionali, con quegli stessi fiammiferi, mettono a ferro e fuoco il mondo?

Si chiede Jesi se il mito possa essere, di per sé, mortifero, demoniaco, in una parola criminale. Questa è una domanda assurda, implicando un distacco fra mito ed essere umano e nel vedere nel mito delle narrazioni che precedono l’umano. Tale distacco è impossibile: per usare la parole di Blumenberg, il mito di Prometeo non è la risposta narrativa a domande eterne sull’uomo, ma l’orizzonte a partire dal quale solo è possibile porsi delle domande su di lui.

Le frasi descrittive sono o vere o false, ma le narrazioni non lo sono. In Germania segreta vi sono centinaia di occorrenze dell’aggettivo “genuino”, quasi sempre riferite al mito; un aggettivo che evoca più che altro la pubblicità delle conserve di pomodoro. Centinaia di occorrenze sono troppe per non alludere a un nodo irrisolto, a una contraddizione. La ricerca del fondamento del mito smaschera l’intento metafisico della stessa. Se si dovesse dare una definizione del mito, si dovrebbe dire che esso è ciò che non ha fondo, non nel senso di una sua abissale irrazionalità, ma perché non è una creazione stabilita una volta per tutte. Lo stesso Blumenberg, il quale ha mostrato che i miti possono essere “metafore assolute”, ribadisce che essi sono pur sempre sottoposti a una infinita elaborazione, la quale a volte si inaugura prima della nascita del mito stesso. Per esempio nel Riso della donna di Tracia si sottolinea che la storiella del filosofo caduto nel pozzo precede l’età di Talete.

Il primo errore è di Kereny quando distingue fra mito autentico e mito strumentalizzato, per cui le walkirie dell’Edda non sono quelle di Wagner, né tantomeno quelle del misticismo nazista. Si tratta di un modo di ragionare che suscita confusione teorica, perché se è vero che i miti sono sempre stati sfruttati dal potere, almeno da quando Numa Pompilio per opportunismo fece girare la voce che il suo ideologo di riferimento fosse la ninfa Egeria, la distinzione non passa fra il mito “genuino” e le sue deformazioni, ma fra le infinite elaborazioni del mito all’origine delle quali non c’è alcuna aurora ineffabile posta fra l’umano e la materia, ma sempre e solo altri miti. Già Herder aveva dimostrato che quello del linguaggio (e dunque del mito) e dell’uomo è un parto gemellare e che non si dà uomo senza racconto.

Quando Kereny cerca di distinguere fra miti veri e miti falsi o falsificati cade nella trappola illuministica di schiacciare il piano mitologico, un piano estraneo alla logica apodittica del vero e del falso, su categorie scientifiche. L’errore, scusabile e forse utile dal punto di vista politico, ma grave dal punto di vista filosofico, consiste nell’applicare al campo del mito una contrapposizione fra verità e menzogna che ha ragion d’essere solo nella scienza. Se dico “domani passerò da te alle cinque” questa frase non è né vera né falsa. Anche Madame Bovary, La Quinta di Beethoven e la Gioconda non sono né vere né false e quando i fratelli Goncourt nella celebre prefazione scrivono che i loro sono “romanzi veri” stanno sollevando lo stesso fumo di stupidità ventilato da Agostino quando per puntellare il cristianesimo, con una mossa sleale si mise a parlare di religione “vera”. In Jesi si va oltre: c’è una tendenza moralistica a giudicare, come da un tribunale, i grandi artisti tedeschi e ad assolverli solo a patto che si ritraggano inorriditi dal marasma del mito deformato che essi stessi, da apprendisti stregoni, hanno evocato.

venerdì 18 gennaio 2019

L'incanto del lotto


La città – “lì dove naufragano le cose” – è un maelstrom che raccoglie, concentra e poi, come nel famoso racconto di Poe, decide cosa precipitare nel fondo dell’oceano e cosa, scagliato dalla forza centrifuga lontano dal buco al centro nel mare in cui tutto prima o poi finisce, può rivivere, riaffiorare, tornare alla luce. La legge che stabilisce cosa vive e cosa muore è retta dal caso. E dalla necessità, cioè dalla volontà di alcuni filologi, letterati, collezionisti fondamentalmente scettici riguardo al buon gusto e persino all’onestà della Storia: cieca, più che spietata linea che procede imperterrita ed euforica, lasciando dietro di sé una scia di rottami, rovine, scarti anche morali.
Il collezionista, dunque, sa che esiste il maelstrom, il gorgo, direbbe Pavese, e che per le cose che vi cadono esso si presenta come il bivio della dottrina orfica: da una parte il Tartaro, cioè l’oblio, dall’altra la metempsicosi degli oggetti, la loro reincarnazione in altri corpi mentali.
A Roma, come in tutte le grandi città, ogni volta che muore una vecchia che magari ha in casa di una biblioteca ereditata da uno zio cardinale giungono gli svuotacantine, paragonabili a selvaggi che non sanno distinguere quasi mai il pezzo di vetro dal diamante. E’ un fenomeno terribile, a suo tempo sottolineato da Leopardi nel Parini: si finisce per parlare solo con laureati, o addirittura con gente che possiede titoli accademici o che tiene conferenze, gestisce case editrici, scrive sui giornali, da dimenticare che il mondo di norma non solo ignora i codici dei letterati, ma non è nemmeno in grado di vederli come lingua. Infatti, li scambia per rumore. In questi casi, il mondo di solito non distingue un segno dalla materia. Perché, contrariamente a quello che credono gli studenti di prima annualità di filosofia del linguaggio, i segni non significano niente; come diceva Tullio De Mauro, piuttosto significano le persone tramite i segni. Ma se le persone non hanno niente da significare in un determinato campo, e ignorano il codice, una lettera di Moravia non è nemmeno macchiata d’inchiostro: è solo una carta annerita. Anche Wittgenstein ripeteva che una regola non ha forza propria. Ci illudiamo che la regola funzioni da sé, quando invece funziona se qualcuno la fa funzionare. Così può accadere, come racconta uno dei massimi collezionisti italiani in Collezionismo di strada (Edizioni della casa di Goethe, 2018, 42 pagg., 7 euro), Giuseppe Garrera, che l’archivio di Giovanni Macchia finisca nel mercato domenicale di Porta Portese. In quel caso, i “selvaggi” abitavano in casa. Erano i parenti stretti, gli eredi. (Mi raccontava qualche giorno fa mio padre, che con rigore professionale e talento si diletta di storia non solo locale, del fatalismo con cui un amico e collega alludeva qualche anno fa agli scaffali della sua biblioteca. “Quando morirò, andrà dispersa” affermava con il tono di chi vuole che gli si dica che no, che rimarrà integra. Naturalmente poi l’uomo è morto e la biblioteca è effettivamente andata dispersa; e con una velocità più ragguardevole di quella paventata dall’interessato).
Ecco, allora, chi è il collezionista che definirei militante. Esattamente come il critico militante non si limita a studiare autori già canonizzati, ma è in prima linea, travolto ogni giorno da mareggiate di libri che gli lasciano sulla soglia di casa plichi, pacchi, buste di bozze di cui egli dovrebbe stabilire se siano segni o rumore (e anche i segni dozzinali, dal punto di vista della storia della letteratura, sono rumore), così il collezionista di strada è un crivello che deve decidere rapidamente cosa lasciar passare e cosa trattenere. Il genitivo, in questo caso, è importante: “di strada” significa trovarsi sul bordo del vortice e dover decidere nel giro di pochi istanti ciò che merita di finire nel nulla e ciò che merita di risalire alla superficie. Perché “c’è un giorno solo per le cose per salvarsi” e “i robivecchi non fanno pulizie e cernite, riversano tutto ciò che nella casa rivoltata come un guanto hanno raccolto”. E’ un ruolo, se ci si riflette, che può togliere il sonno. Quante volte abbiamo letto di capolavori andati distrutti per una distrazione, per leggerezza: le navi di Nemi riesumate con enormi sforzi prosciugando un lago e probabilmente bruciate da militari tedeschi ubriachi durante la ritirata del 1944, tanto per fare un esempio.
Una seconda suggestione legata all’attività del collezionista di strada è quella, di origine agostiniana, relativa alla coppia usura/fruizione. Una lettera della Ortese è un oggetto che dovrebbe essere fruito; eppure la storia tritura tutto e se la lettera non viene riconosciuta e curata finisce per usurarsi; Garrera mostra che quando i carichi giungono a Porta Portese sono avviliti anche per questo, perché hanno cominciato ad usurarsi, ridotti come sono a cumuli di oggetti. Ma le chiavi di lettura che Garrera adombra sono innumerevoli. Compare l’angelo nuovo di Benjamin, un essere che aleggia su chiunque sia impegnato a rallentare la macina inesorabile, ma sempre corruttibile o circuibile, del tempo; cui si potrebbe aggiungere il nome di Carlo Ginzburg, le cui tracce spie e serendipity hanno illustrato quale semiologia si celi dietro l’attività dell’esperto, del collezionista costantemente impegnato a separare, direbbe la Bibbia, il grano dall’oglio. Quello di Garrera è un libro non disordinato, ma caotico: perché la merce giunge sul mercato in forma caotica e perché le cacce al tesoro hanno qualcosa di febbrile, di onirico. I temi sono tanti, troppi, come se una metafora non bastasse a descrivere cosa realmente muove il collezionista di strada. A parte le pagine memorabili della Peau de Chagrin nelle quali Balzac, anticipando di fatto una teoria del postmoderno, lega antiquariato e miraggio di salvezza con il nodo del patto con il diavolo – Balzac, di cui si ricostruisce la visita a Roma e l’ossessione antiquaria in una città che per ovvie ragioni è la capitale del collezionismo – Collezionismo di strada è anche un saggio di etnografia: la descrizione dei mercatini di rigattieri a Roma, con la loro stratificazione sociale ed etnica è un capitolo importante della geografia cittadina. L’umorismo dei bancarellari romani fra l’altro si rivela di una qualità eccezionale, dadaista: venditori che gridano ai possibili clienti “Andiamo, è tutta roba già rubata! oppure, in un momento in cui nessuno si fermava: Non spingete, per favore, non spingete! Uno alla volta!” o ancora: “Oggi ci roviniamo, tutto al doppio!” Fino al sublime, sovralunare “Forza signori, qui c’è timidezza!” Emerge, in questi mercatini, l’animismo e feticismo dei compratori, che si rigirano fra le mani oggetti di nessun valore eppure magicamente intrisi della vita del precedente proprietario (confesso, a questo riguardo, di avere sempre attribuito un valore feticistico agli oggetti appartenuti ad altri superiore al valore feticistico che attribuisco agli oggetti posseduti da me). Le ipotesi interpretative si accavallano, come è giusto che sia attorno ad una pratica in cui la pulsione dell’accumulo ha un ruolo primario. La mitopoiesi e mitomania: “Ogni venditore a Porta Portese risulta un raccontatore di favole”. E' doveroso ricordare, a questo punto, che due scrittori importanti legati a Roma sono degli antiquari o provengono da una famiglia di antiquari: Filippo Tuena, che ha rubato alla Pelle di zigrino il titolo di un suo romanzo, Tutti i sognatori; e lo storico dell’arte e antiquario Marco Fabio Apolloni, autore del notevole romanzo Il mistero della Locanda Serny e di sonetti nello stile del Belli. Innegabili, le affinità elettive fra letteratura e antiquariato, soprattutto oggi: non è un caso che il primo romanzo spudoratamente postmoderno, L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon (1965), porti nel titolo e nell’explicit stupefacente un’asta. Forse viviamo tutti nel retrobottega di un robivecchi e non sappiamo come uscirne… Si staglia l’immagine del mercato che sogna se stesso, analogon terrificante della società postmoderna che attua il mito borgesiano e decostruzionista di un linguaggio il cui correlativo oggettivo non è il mondo, ma un altro linguaggio, in questo caso un’economia che vende se stessa in un circuito merce-denaro-merce-denaro infinita; quando Garrera parla di “giro fatato”, difficile non pensare al kula di Malinowski, la cui funzione puramente sociale volendo si può accostare all’ “economia prima dell’economia”, “prima della colpa” tipica dei giochi dei bambini. Appare sullo sfondo, in Collezionismo di strada, una posizione antimarxista Bataille-Baudrillard abituata a privilegiare una circolazione delle merci basata sullo spreco, la distruzione e l’eccesso più che sullo scambio. Strana economia, quella del collezionismo, vicina al furto e al dono: gli unici atti che secondo Deleuze e Guattari il desiderio conosca. Presenti gli aspetti maniacali, rimarcati da Roberto Calasso il quale in Come ordinare una biblioteca, la strenna Adelphi mandata ai giornalisti per il Natale del 2018 e che spero Garrera possegga, perché è anche un libro sul collezionismo e infatti si evoca la vicenda di Chatwin, racconta la storia del ricco uomo d’affari statunitense che ha messo insieme una collezione di seicentine, tutte in una stanza, due poltroncine e un tavolo… Compare l’accenno a lotti famosi, per esempio a quello, su cui ha scrtto un libro molto bello Lorenza Foschini, appartenente a Marcel Proust. Non manca un regesto dettagliato delle malattie professionali, né la descrizione degli abissi che separano l’antiquario dal bancarellaro, dallo stracciarolo e infine dal vero e proprio mendicante senza dimenticare il piacere del corto circuito fra alto e basso: come nel caso degli straccivendoli con in mano oggetti di solito maneggiati da professori (“Questo mi hanno detto che è un Guttuso al 100%”, dove l’aspetto esilarante è accresciuto dal cortocircuito fra l’oggetto prezioso per palati esigenti, il quadro di Guttuso, e il gergo da bancarellaro). Il mercato è un’isola del tesoro, una grotta di Alì Babà, una festa; e la festa, come hanno mostrato gli storici, è parente stretta della guerra e dunque della morte. La giornata di Chatwin, cui Garrera dedica pagine bellissime, si apriva alle nove con la lettura dei necrologi, in attesa che nuovi capovolgimenti permettessero di riportare alla vita alcuni cadaveri oggettuali. Perché la vita degli oggetti nelle mani di inconsapevoli padroni di tesori è un sonno (compare in una pagina l’immagine del dormitorio, evocata dagli oggetti allineati, imbacuccati nei fazzoletti e chiusi nei cassetti) o proprio la morte. Dopo la morte dei loro padroni, gli oggetti rischiano una seconda morte definitiva (dalla soffitta al cassonetto) ma per alcuni istanti tornano a vivere, o perlomeno a rischiare di tornare a vivere. Come detto, nientemeno che l’archivio di Giovanni Macchia ha rischiato di finire nell’immondezzaio, se Garrera non lo avesse salvato in articulo mortis ed anche a me, che ogni tanto cerco prima qualche edizione in rete, è capitato come a Garrera di vedere su ebay moltissimi libri con dedica autografa ad Alberto Ronchey. Ora, Ronchey ha una figlia che è una celebre bizantinista: perché questi libri sono finiti in vendita? Doppioni, probabilmente. O forse un parricidio postumo? Non mancano gli aspetti lugubri della vendita: “La costruzione della necropoli come spazio incantato e definitivo” fa il paio con gli oggetti relegati nel buio “come Barbablù le sue mogli”. E gli aspetti osceni: le vite private scoperte e buttate sul mercato; amori, lettere, ricordi deracinés e poi sottoposti alla prova del mutamento di contesto, per vedere quanto valgono al di fuori del loro ambiente. Alla fine, ci si dice che ogni oggetto è o può essere un talismano, proprio come la pelle dell’asino selvatico di Balzac: “gli oggetti hanno fortunatamente la specialità di impiantarsi nell’anima per poi dire all’anima che cosa fare, e insegnarle e indicarle i miraggi da fuggire, le terre da esplorare, i depositi e le stanze arieggiate da erigere, i giardini e le mura da costruire. Bisogna avere l’ingenuità dei credenti per mettere su una collezione. Ci si ripromette infatti grandi cose”. E visto che il collezionista, come scrive Goethe nel “Collezionista e la sua cerchia”, è un “rinunciante”, qualcuno che per dolore ha rinunciato all’attualità, prendendo la via alchemica del “separando”, non può che sognare, scrive Garrera indubbiamente commosso, “Di recuperare tutto intero il sogno del proprio regno perduto”.

domenica 8 aprile 2018

Moneta frusciante




Durante un viaggio a Lanzarote con la Ryanair, a un certo punto lo steward ci ha annunciato che ci avrebbe venduto i biglietti del rasca y gana, cioè del gratta-e-vinci, e che in palio c’erano un soggiorno a Las Vegas, una Seat Ibiza e addirittura un milione di euro. Allora finalmente ho capito: quel che stavamo risparmiando sul biglietto lo pagavamo in volgarità.”
Ho scelto di citare questo brano, che si legge nell’ultimo lavoro di Walter Siti, Pagare o non pagare (Nottetempo, 135 pagg., 12 euro), anche se si tratta di un passo che si presta al fraintendimento. In realtà, Siti non nutre alcuna pregiudiziale verso il denaro: in una delle pagine più allegre del libro l’autore racconta di quando, diventato professore universitario, invece di farsi accreditare lo stipendio sul conto in banca preferiva andarlo a ritirare allo sportello, in moneta frusciante: “l’impiegato contava le banconote da cento e cinquantamila, che erano parecchie, e alle mie spalle qualcuno del personale non docente commentava, tra l’ammirato e l’invidioso: ma non finiscono mai!” Le prime pagine di Pagare o non pagare compongono un felice ritratto dello scrittore come acquirente (anche sessuale) e non mostrano alcuna simpatia per il pauperismo che hanno i fanatici della decrescita felice. Domina, al contrario, il piacere di spendere. Perché, dunque, la volgarità? Perché l’istigazione alla volgarità è un caso di “danno economico di nuovo tipo”. Sono danni di vecchio tipo lo sfruttamento della manodopera, il precariato, la fragilità del sistema bancario e di quello industriale. Ben più allarmanti i danni di nuovo tipo, prodotti da un sistema economico che dopo aver conquistato il pianeta, non potendo più estendere il suo dominio in senso orizzontale ha iniziato a scavare nelle profondità dell’essere umano, costituite in gran parte dal piano simbolico. L’“economia del gratis” – i ristoranti all you can eat, i siti di couchsurfing, il software di Linux, la possibilità di telefonare spendendo pochi centesimi o di fare sesso gratuito con sconosciuti approfittando di Tinder o di Grindar – ci chiede solo di non disturbare la cornice politico-finanziaria che le consente di funzionare; e poi di cederle, per un piatto di lenticchie, dei pezzetti di anima. E questo è intollerabile. Pagare o non pagare non è dunque solo una postilla saggistica al romanzo sulla new economy con cui Siti vinse il premio Strega, Resistere non serve a niente, scritta allo scopo di dar conto dei fenomeni più vistosi degli ultimi anni come l’irresistibile successo di Amazon o l’onnipotenza di Google. E’ anche il resoconto di una correzione di tiro. L’anti-umanismo e il fatalismo, con cui si flirtava in quel romanzo, vi appaiono attenuati. Se Resistere non serve a niente, con la sua tesi gridata già nel titolo dell’inutilità di ogni tentativo di difesa dell’essenza umana, evocava il celebre aforismo di Adorno sui medici “che con un’alzata di spalle hanno rivelato la loro segreta intesa con la morte”, Pagare o non pagare riconduce ad alcune considerazioni di Malaparte sulla pelle e sull’anima. Le ricordate? Quando gli italiani dovevano difendere la loro anima erano pronti ai più fulgidi eroismi, mentre adesso che devono salvare la pelle non c’è argine alla degradazione. Il sospetto è che l’ultimo giro di vite del sistema economico mondiale, con la sua manifesta abilità nel ricavare profitti dalla devastazione dell’immaginario – cioè, più semplicemente, della cultura – abbia spinto Siti a una reazione. E’ un modo di riconoscere che resistere, ogni tanto, può servire a qualcosa.

domenica 23 luglio 2017

Di alcune analogie fra la morte di Pasolini e la morte del console Geoffrey Firmin



Entrambe avvengono a notte fonda.
Entrambe si verificano dopo un viaggio che conduce dalla città ad un luogo esterno ad essa.
In tutti e due i casi il viaggio è motivato dalla ricerca di sesso mercenario.
L’esito tragico, fatale, è una conseguenza del fatto che l’appuntamento si rivela una trappola fascista.

giovedì 29 giugno 2017

Quale sarebbe la prova


Nella Bibbia, nel Libro dei Giudici, c’è un passo famoso. Dopo aver sconfitto gli Efraimiti, i Galaaditi costrinsero i nemici sopravvissuti, che tentavano di fuggire guadando il Giordano, a pronunciare la lettera “scibbolet”, un suono molto difficile da pronunciare per gli stranieri. Chi non riusciva a pronunciare il suono veniva sgozzato. Chi, invece, riusciva a pronunciarlo correttamente dimostrava di essere “dei nostri” e veniva graziato.
Ora, immaginiamo di sottoporre noi europei, noi occidentali a qualcosa di simile (cornice truce a parte). Quale sarebbe la prova che siamo davvero europei, davvero occidentali? Qual è il nostro “scibbolet”? Mi sono posto questa domanda dopo aver appreso la notizia che in Francia un sacerdote cattolico, padre Jacques Hamel, era stato ucciso nella sua chiesa. Nell’Europa del XXI secolo, dunque, c’è stato nientemeno che un “assassinio nella cattedrale”; con l’aggravante che mentre l’omicidio commissionato nel 1170 da Enrico il Plantageneto ai danni di Tommaso Becket  - e portato sulle scene da T.S. Eliot nel 1935 - rappresenta un momento essenziale nella storia della separazione fra Stato e Chiesa (il re inglese voleva ridurre i privilegi del clero, operazione alla quale Tommaso, spalleggiato dal papa di Roma, si opponeva), la morte di padre Hamel configura uno scontro (orizzontale) fra due religioni ed è in un certo senso più “arcaica”, essendo stata causata da fanatici musulmani.
Prima di proseguire, a scanso di equivoci, premetto che quando parlerò di “terrorismo di matrice islamica” o di “fanatici musulmani” mi riferisco a quei fedeli che dimenticano e cancellano (“neutralizzano”, direbbero i semiologi) il potenziale di tolleranza e umanità  implicito nel Corano e invece ingigantiscono (“magnificano”, direbbero sempre i semiologi con un brutto anglicismo) i suoi passi “bellici”; interpretano, cioè, alla lettera i passi del Corano (ve ne sono di analoghi anche nella Bibbia) in cui si legge che il musulmano dovrebbe conquistare all’Islam il mondo intero. D’altro canto è con loro che a quanto pare bisogna fare i conti.
Sia detto subito e senza esitazioni: con tutto il rispetto per la vittima, che un sacerdote cristiano sia stato ucciso in chiesa e che i suoi assassini, prima di attuare il loro piano, abbiano registrato un filmato in cui dichiarano di essere dei “martiri” dell’Islam rischia di rendere inarrestabile uno degli automatismi ormai ubiqui che confondono i piani e impediscono di leggere con chiarezza i termini essenziali della questione, rendendoci più fragili. Mi riferisco in particolare alle spiegazioni (che spesso si trasformano in velate giustificazioni, se non in assoluzioni belle e buone) che sovrappongono cause religiose, storiche, geopolitiche, sociali ed economiche, attribuendone la responsabilità all’Occidente. Ora, scriveva Alberto Arbasino, così come io non mi vanto di aver dipinto la cappella Sistina, perché la cappella Sistina, invece, l’ha dipinta Michelangelo, così non c’è alcuna ragione di sentirsi in colpa se singoli europei da duecento anni trattano le parti militarmente e politicamente deboli del pianeta come la loro personale grotta di Alì Babà: sfruttando, affamando e uccidendo. Gli industriali senza scrupoli che fabbricano e vendono armi ad eserciti tribali che arruolano bambini; i politici che non censurano, ma avallano o addirittura favoriscono queste pratiche; i banchieri dalla faccia di bronzo che supportano finanziariamente tali operazioni sono responsabili delle loro azioni e non possono autoassolversi scaricando responsabilità individuali su presunte collettività o “sistemi” culturali. Ma il vero punto debole di queste spiegazioni religiose, politiche o sociali è che sono “infinite”. Potrebbero servire trent’anni (ma forse cinquanta, forse cento...) di ricerche per stabilire una volta per tutte la ragione sociologica per la quale un terrorista si è fatto saltare in aria, uccidendo venti persone. Lo stesso se si vuole determinarne il fondamento economico, psicologico o storico. Non solo: le spiegazioni “infinite”, oltre a non darci praticamente mai una risposta, rallentano le nostre reazioni e raffreddano la nostra indignazione, perché spostano sul piano della ricerca scientifica e della riflessione intellettuale un atto che distrugge vite, traumatizza la società e che dunque dovrebbe generare passioni ben lontane dalla pacata riflessione dello storico della cultura. Noi vogliamo che l’Occidente reagisca come un’entità violata, non come un’accademia di fronte ad un rompicapo socio-economico. Le accademie hanno altri obiettivi e soprattutto altri tempi; nel lungo periodo, nessuno nega che facciano la differenza, ma a breve termine affidarsi a loro produce più danni che benefici. Io vorrei continuare a vivere in uno stato laico e tollerante - in una società aperta, non in uno stato confessionale - e non credo che il modo giusto di agire per garantire tale futuro sia puntare tutto sulle università. Servono risposte “di governo” tempestive ed efficaci. Risposte possibili solo se i cittadini percepiranno gli attentati terroristici come il tentativo di demolire per l’appunto il nostro scibbolet, la nostra “forma di vita”. La nostra Lebensform, direbbe Wittgenstein. Forma di vita: meglio evitare espressioni quali “stile di vita” o “modo di vivere” che fanno pensare a entità posticce che potrebbero essere rimosse senza conseguenze. Non  stiamo parlando di cravatte di seta da annodare con quattro o cinque movimenti né di tè alle cinque né di partite di calcetto una volta la settimana. Stiamo parlando di qualcosa che coincide con noi stessi. Non di qualcosa che abbiamo (abbiamo abitudini), ma di qualcosa che siamo. E cosa siamo? In cosa ci identifichiamo?
Prima di rispondere, torniamo all’assassinio di padre Hamel, ponendoci una domanda che pochi si sono fatti: e se il nostro processo di identificazione fosse manipolato dai terroristi proprio attraverso i loro atti? Se esso fosse, cioè, imposto da loro? Uccidere un prete nella sua chiesa è un atto aberrante, ma è anche un anacronismo, un gesto che “stona” con il nostro tempo, al quale non appartiene. Non ce n’è abbastanza per sospettare che l’assassinio di padre Hamel sia stato l’effetto di un’operazione studiata a tavolino per spingere noi occidentali a identificarci con un’ideologia che ci indebolisce o che ci rappresenta solo in parte?
Lasciamo momentaneamente in sospeso questa domanda, ed evochiamo invece le risposte che si ascoltano più di frequente quando si va a caccia dell’ “identità occidentale”.
Molti sostengono che la “forma di vita” occidentale sia la libertà. Fare le ore piccole, andare in spiaggia in bikini e ogni tanto, in compagnia di amici cari e fidati, ubriacarsi per risvegliarsi il giorno dopo con il mal di testa. Andare a letto con chi ci pare senza per questo doversi, prima, sposare. Scrivere poesie “maledette”. Comportarsi in modo trasgressivo, immorale o amorale senza finire in galera e beccando al massimo qualche occhiataccia dai vicini di casa: questo è (sarebbe) l’Occidente.
Tutto sbagliato: la “forma di vita” occidentale è il Cristianesimo, risponderà invece chi vuole sottolineare l’opposizione religiosa fra Cristianesimo e Islam. In fondo, cosa è accaduto in Francia? Dei fanatici musulmani hanno ucciso un prete cristiano. Più ovvio di così...
Risposte, entrambe, chiare, che però implicano una semplificazione che le rende vulnerabili.
Chi vede l’essenza dell’Occidente nella libertà può essere facilmente smentito: esistono persone che non festeggiano gli scatti di carriera con l’alcol, che hanno una vita sessuale morigerata e uno stile di vita piccolo-borghese.
Un’Europa cristiana, allora? Con il tasso di secolarizzazione alle stelle e il generale scetticismo verso la Chiesa che spesso, sulla scia dei reati di cui si sono macchiati alcuni prelati, diventa aperta ostilità? Senza contare che il numero crescente di scettici, agnostici e atei non è una conseguenza dei tempi che corrono, come vorrebbero le vecchie zie, ma l’effetto finale di un processo essenziale, quello del passaggio dal mito alla ragione e dalla religione alla scienza, innescato dai filosofi ionici venticinque secoli fa. L’Europa sta dimostrando con i fatti, con le chiese deserte e la crisi delle vocazioni, che è figlia più della filosofia greca che del Vangelo. Non spetta a me dire se questo sia un bene o un male, ma è così. E se tentassimo di riattivare in modo opportunistico il nostro residuale cristianesimo solo per opporci al fanatismo religioso di matrice islamica saremmo destinati alla sconfitta: la fede non nasce a comando e le religioni non si lasciano strumentalizzare senza vendicarsi.
La “forma di vita” occidentale, allora, sarebbe basata sulla scienza? Anche qui, meglio non dare risposte affrettate. L’Occidente non è solo il teorema di Pitagora e il cannocchiale di Galileo: è anche un insieme di favole, di narrazioni fondanti e di immagini parlanti, molte delle quali, indubbiamente, sono di origine cristiana. Tale origine non è inattiva; ma bisogna precisare che la forza dell’Occidente non sta nel Cristianesimo puro e semplice. La forza dell’Occidente risiede, semmai, anche in quella sezione ridotta del Cristianesimo che è stato possibile trasformare in una forma dolce di umanesimo e che per tale motivo è stata accolta dalle nostre costituzioni e dal nostro diritto, assieme ad altre tradizioni con le quali ha imparato a convivere: quella liberale e quella del solidarismo socialista, tanto per fare due esempi.
Ecco, quasi senza accorgercene abbiamo trovato il nostro “scibbolet”, la nostra “forma di vita”. Ciò che ci distingue è il diritto. E il modo giusto di reagire agli attentati terroristici è dire che si tratta di criminali, di criminali comuni. Uccidono, mettono bombe, incitano all’eversione. Violano il diritto, cioè la forma giuridica nella quale abbiamo liberamente deciso di entrare e che abbiamo liberamente deciso di essere. Dire che i terroristi sono criminali comuni non significa accusarli di meno, significa accusarli di più. Significa accusarli subito. Significa dire che hanno violato quanto di più profondo abbiamo, la nostra “forma di vita”. Ed esattamente come è normale che i sociologi studino la frequenza dei furti nelle varie categorie sociali e nelle diverse regioni italiane, senza per questo dimenticare che coloro che commettono tali furti sono dei ladri, così si potrà, nelle università, nelle redazioni dei giornali, nelle case editrici  analizzare doverosamente le “cause” degli attentati terroristici: ma guai a dimenticare che si tratta di criminali. E guai a dimenticare che nel diritto precipitano le tradizioni più essenziali dell’Occidente: il culto della razionalità e contemporaneamente la diffidenza verso l’applicazione totalitaria di questa stessa razionalità; l’umanesimo cristiano privato delle sue componenti dogmatiche; il solidarismo socialista; la tradizione del liberalismo e del rispetto delle libertà individuali.
A questo punto l’articolo potrebbe terminare, non fosse che resta in ballo un sospetto che ogni liberale dovrebbe sforzarsi di fugare. Il problema è che il diritto viene visto, dalla tradizione liberale, come una serie di muri, di limiti alla libertà individuale o, nella più benevola delle ipotesi, come dei binari preferenziali sui quali muoversi. L’atteggiamento alternativo, quello di matrice romantica che vede il diritto come sedimentazione delle tradizioni giuridiche di un popolo e come il correlativo giuridico della sua cultura in senso lato viene visto dai liberali come ipocrita, pericoloso e persino come un’anticipazione dello “stato etico”, vale a dire dello stato che ficca il naso dove non dovrebbe, per esempio nel campo della morale. Posizioni teoriche, queste dei liberali, rispettabili e rispettate, ma che in certi momenti diventano problematiche. Se infatti vedessimo il diritto come qualcosa che è fuori di noi, e che magari temiamo e che al limite ci opprime, ci ritroveremmo nella stessa condizione di un immigrato che non avendo il nostro passato sente il sistema della Costituzione e dei codici come una gabbia. Saremmo entrambi stranieri rispetto al diritto e non c’è niente di peggio, quando si combatte per difendere qualcosa di essenziale, del ritrovarsi a dividere la stessa condizione di oppressi di chi ci aggredisce.