lunedì 15 agosto 2011

Il figlio di Joe Marrazzo

Ho appena finito di leggere su Repubblica la bella intervista di Concita De Gregorio a Piero Marrazzo, che ha confermato alcune idee che mi ero fatto del “caso”. Marrazzo si dimostra ancora una volta succube di un tipo di ipocrisia che definirei opportunistica e dunque ambientale. Ammette di aver fatto quello che ha fatto, ma con una serie di attenuanti. Sì, ha usato la macchina di stato: ma ha parcheggiato lontano; sì, gli è capitato di assumere droga, ma non quel giorno; sì, andava a letto con un travestito e per giunta pagandolo, ma non per il brivido della trasgressione, bensì per fruire della femminilità del travestito che sarebbe, a suo dire, più intensa e consolatoria di quella delle donne. E questa sarebbe, chissà perchè, una sua “debolezza”. L’impressione è che Marrazzo si avvantaggi degli aspetti assolutori concessi dalla cultura progressista, che in privato fa sempre comodo a tutti, ma non abbia nessuna intenzione di tagliare i ponti con la cultura piccolo-borghese cui appartiene la quasi totalità degli elettori e alla quale Marrazzo deve il suo successo passato, nonché le risibili chances di un suo reintegro futuro nei salotti della politica. Basta pensare alla buffonata del ritiro nel monastero di Montecassino, che in quanto a vagheggiamento medievale fa il paio con il bisogno “riposante” di una donna dotata di “una capacità di accudimento straordinaria”. Come tutti i politici, Marrazzo sa bene che si possono anche violare le regole della morale, ma ad un patto: che si resti all’interno dello schema “desiderato in quanto vietato”, uno schema formulato da Frazer, ripreso da Freud ed infine denunciato nella sua matrice liberticida da Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo. In tutta l’intervista Marrazzo ammette ed ammette, ma connota le sue ammissioni sempre dal verso “giusto”, cioè sbagliato: se sta “sotto bastone” non è certo il manganello dei poliziotti corrotti che lo ricattavano, ma quello della morale fantasmaticamente gretta che non si cessa di immaginare come intrinseca alla società civile. Alcuni passi dell’intervista sono strepitosi. Per esempio quando l’ex-governatore della regione Lazio dichiara che quella sera “non aveva esattamente un appuntamento”, e che se il trans Brenda fosse stato “occupato” con un altro cliente sarebbe andato via, mi hanno ricordato quel che accadeva in Francia durante il Secondo Impero: Napoleone III andava al bordello, ma se sulle scale incontrava qualcuno che era arrivato prima di lui, qualcuno che aveva la precedenza, come un qualsiasi privato cittadino faceva il gesto di cedergli il passo. Ma forse il tratto più patetico e recidivante riguarda una singolarità, per così dire, statistica: “Nel corso di questa intervista” – scrive De Gregorio – Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte: Perchè io sono il figlio di Joe Marrazzo”. Refrain stonato, fumettistico, ma soprattutto, ancora una volta, manipolatorio. Piero vuole forse dire che, in quanto figlio di un grand’uomo, ha il dovere di rinascere come la Fenice e di tornare a coincidere con un positivo modello transgenerazionale? In realtà, è esattamente il contrario. Dopo quello che è successo, e se manteniamo come ideologia di riferimento quella che Piero, pour cause, vuole tenere al caldo, egli non solo non è più culturalmente il figlio di suo padre, ma sottopone ad una feroce diminutio la figura paterna, che appare o come un cattivo educatore, o come uno specchio della corruzione morale del figlio. Paradossalmente, per restare figlio di suo padre e per difenderne la memoria Marrazzo avrebbe dovuto dire che non si è pentito assolutamente di nulla. Ebbene sì, andava a travestiti, si drogava ed usava il suo ruolo pubblico come un viceré spagnolo. E di ciò, caro papà, si può menar vanto.

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