domenica 23 settembre 2012

Del maggiore scrittore italiano


Nel 2008, in occasione del centenario della nascita di Claude Lévi-Strauss, Alberto Arbasino tornò a viaggiare nei luoghi di Tristi tropici, lo straordinario diario amazzonico con il quale nel 1955 il grande antropologo francese rischiò di vincere il premio Goncourt. Di questo viaggio si pubblica oggi il resoconto (Pensieri selvaggi a Buenos Aires, Adelphi, 125 pagg., 10 euro). Notoriamente impermeabile alle suggestioni primitiviste o terzomondiste, e dunque refrattario alla fascinazione etnologica o radical chic per gli indigeni delle foreste sudamericane, Arbasino  accantona subito il relativismo di Lévi-Strauss a vantaggio di un orgoglioso cosmopolitismo di marca occidentale. Tutto riconduce all’Europa: il Palazzo del Governo di Lima e la cattedrale di Buenos Aires rinviano rispettivamente a una centrale nucleare e a una stazione parigina, mentre “Il complesso di Santa Rosa a Lima, a Lima appare molto più trafficato del popolare corso Buenos Aires a Milano al culmine delle liquidazioni”. Quanto a Santa Rosa, impossibile non farle evocare i facchini che a Viterbo, una volta l’anno, trasportano per i vicoli della città una "macchina che pesa cinque tonnellate". Legioni di lettori si sono sentite infastidite da questa folle corsa al rimando, qui persino più accentuata del solito. Non hanno tutti i torti, certo; ma neanche tutte le ragioni. Due, infatti, sono i modi in cui i grandi scrittori maturano e invecchiano: radicalizzando il loro atteggiamento fino a diventare impervi (è il caso, per esempio, di Joyce) oppure raggiungendo un’impressionante, ma umana maestria (ed è il caso, oggi, di Philip Roth). Perché mai si dovrebbe negare ad Arbasino il diritto di ricadere nella prima categoria? In fondo, stiamo parlando del maggiore scrittore italiano. Agli ultimi riottosi, allora, a coloro che dell’autore di Fratelli d’Italia detestano le articolesse comparse su Repubblica o i "pizzini" inviati al Corriere, vorremmo dare un piccolo suggerimento: di sfogliare con attenzione le pagine finali di Pensieri selvaggi a Buenos Aires. Contengono una splendida intervista di Arbasino a Borges, risalente al 1977. Vi si discetta di realismo e di immaginazione, e lo si fa con profondità, competenza e un pizzico di birichineria. E forse, con un po’ di ottimismo si potrebbe osservare che tante noiose polemiche sul realismo non ci sarebbero state, se avessimo per tempo dato retta alle parole di Borges.

lunedì 10 settembre 2012

Mai sotto Čechov

L'escursione dovrebbe durare circa due ore, ma a giudicare dagli sguardi dei partecipanti sono in pochi a crederci; anche perché è notte fonda e ha piovuto tutto il pomeriggio. Al campo base ci sottopongono ad un briefing; poi, dopo averci consegnato un lungo bastone dalla punta luminosa, che dovrebbe impedirci di precipitare in qualche burrone, si parte. All'inizio la pendenza è appena percettibile, ma ben presto la passeggiata diventa una scalata di terzo grado. Si inciampa nella brughiera, si scivola sulle pietre bagnate. Ma quando finalmente si arriva in cima all' "Arthur seat", lo sperone roccioso che domina Edimburgo, si riconosce che ne valeva la pena: avere la città ai piedi ripaga della fatica e dell'incipiente raffreddore. Mentre godiamo il panorama, nell'aria gelata si diffonde una musichetta proveniente dai nostri buffi bastoni laser, ognuno dei quali contiene un microchip che ha memorizzato ogni movimento e lo trasforma in suono.
Nella capitale della Scozia l'estate del 2012 sarà ricordata probabilmente per lo Speed of Light, un po' scampagnata notturna e un po' puttanata new age. Quello che non si vede dall' "Arthur Seat" è che nel mese di agosto la popolazione cittadina raddoppia ed Edimburgo, letteralmente, scoppia: di turismo, di musica, ma soprattutto di teatro. Due dei quattro festival in corso (gli altri sono l'"International book festival" e il "F.O.P.", dedicato alla discussione politica) curano in particolar modo l'arte della recitazione. L'"Edinburgh International Festival" è la rassegna ufficiale, alla quale partecipano le compagnie più affermate, mentre il "Fringe", il festival della "frangia" esclusa dal circolo dei privilegiati, è un immenso calderone nel quale bollono quasi millenovecento spettacoli. Ma chi credesse che sperimentazioni sovralunari e novità mozzafiato siano appannaggio del "Fringe" può iniziare a ricredersi. E' solo un'impressione, ma si ha il sospetto che nel festival internazionale dominino le opere sperimentali, spesso deludenti; mentre anche il più ambizioso degli spettacoli del "Fringe" poggia i piedi per terra. Il contrario, insomma, di ciò che accade in Italia, dove ciò che è sperimentale non può né deve mai essere "ufficiale".
Cominciamo con la rassegna più prestigiosa. L'attesissima trasposizione teatrale dei Viaggi di Gulliver, ad opera del romeno Silviu Purcărete, ha deluso. Prima che inizi lo spettacolo cinque inquietanti donne-giumenta, appartenenti al popolo immaginario degli Houyhnhnms, zoppicano nella penombra, promettendo efferatezze. E le scene sono indubbiamente meravigliose: una luce da solare granaio balcanico fa splendere i quintali di paglia distribuiti sul palcoscenico per consentire a un cavallo vivo di muoversi fra gli attori. Ma lo sviluppo drammatico è esile e ignora la struttura del celebre romanzo di Swift, trattato alla stregua di un banale misantropo irlandese. Nel Macbeth del polacco Grzegorz Jarzyna, ambientato in un generico Medio Oriente, Macbeth è un graduato che atterra con l'elicottero su un bunker infestato da musulmani ("Here is major Macbeth, and I'm landing!"); a parte questo, il Medio Oriente presta alla pièce solo l'atmosfera, e poco altro. In Tatyana una decina di ballerini brasiliani cercano di danzare come i loro colleghi del Bol'šoj, con i risultati che è facile intuire. E appartiene al festival ufficiale anche il velleitario Speed of light.
Se invece dall'"Edinburgh International Festival" ci spostiamo al "Fringe", salta subito agli occhi una concretezza tutt'altro che sperimentale, e a volte persino reazionaria. Maurice's Jubilee, storia di un gioielliere al quale Elisabetta II, il giorno della sua incoronazione, promette che sessant'anni dopo verrà a cercarlo, è basato su un copione antidiluviano che potrebbe essere di Oscar Wilde, basta sostituire la regina Elisabetta con la regina Vittoria. In Still life Sue MacLaine, attrice di vaglia che in passato ha affiancato gente del calibro di Kennet Branagh, recita completamente nuda mentre gli spettatori, ai quali è stata consegnata una matita affilata e dei fogli da disegno, devono ritrarla. Dietro l'originalità della "trovata", però, si cela il classico monologo autobiografico, travestito da corso di pittura. The Sh*t!, la produzione orgogliosamente italiana con cui Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano hanno conquistato la rocca impenetrabile della critica britannica, dal Time's al Guardian, mostra l'orrore prodotto dalla forzata convivenza fra la società dello spettacolo e la morale ipocrita distribuita in dosi massicce al popolo per "tamponare" gli effetti di quella stessa società, ma lo fa senza perdere di vista gli strumenti del teatro, in questo caso il corpo nudo e vociferante dell'attrice. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: uno spettacolo di marionette trabocca di rinvii al mito di Orfeo, ma li irregimenta in una trama di ferro che appassiona i bambini; una commediaccia sulla storia del Regno Unito è piena di arti amputati e di secchi di finto liquame lanciati sul pubblico esilarato, eppure spinge al pacifismo più di venti Marco Paolini. Il risultato? Platee strapiene e recensioni positive: nel paese di Thackeray il segno distintivo del grand'uomo è ancora il successo; mentre per noi italiani, che prolunghiamo la linea Adorno-Fortini, il successo testimonia piuttosto di una truffa in corso. Ecco allora, da noi, le filodrammatiche che non scendono mai sotto Čechov, le villette di campagna che volendo essere palladiane distruggono il paesaggio, gli imprenditori dilettanti che fanno il passo più lungo della gamba e poi si lamentano dello Stato che non li sostiene. E naturalmente le compagnie di attori che svuotano sistematicamente i teatri, e poi pretendono un salvagente.