venerdì 18 gennaio 2019

L'incanto del lotto


La città – “lì dove naufragano le cose” – è un maelstrom che raccoglie, concentra e poi, come nel famoso racconto di Poe, decide cosa precipitare nel fondo dell’oceano e cosa, scagliato dalla forza centrifuga lontano dal buco al centro nel mare in cui tutto prima o poi finisce, può rivivere, riaffiorare, tornare alla luce. La legge che stabilisce cosa vive e cosa muore è retta dal caso. E dalla necessità, cioè dalla volontà di alcuni filologi, letterati, collezionisti fondamentalmente scettici riguardo al buon gusto e persino all’onestà della Storia: cieca, più che spietata linea che procede imperterrita ed euforica, lasciando dietro di sé una scia di rottami, rovine, scarti anche morali.
Il collezionista, dunque, sa che esiste il maelstrom, il gorgo, direbbe Pavese, e che per le cose che vi cadono esso si presenta come il bivio della dottrina orfica: da una parte il Tartaro, cioè l’oblio, dall’altra la metempsicosi degli oggetti, la loro reincarnazione in altri corpi mentali.
A Roma, come in tutte le grandi città, ogni volta che muore una vecchia che magari ha in casa di una biblioteca ereditata da uno zio cardinale giungono gli svuotacantine, paragonabili a selvaggi che non sanno distinguere quasi mai il pezzo di vetro dal diamante. E’ un fenomeno terribile, a suo tempo sottolineato da Leopardi nel Parini: si finisce per parlare solo con laureati, o addirittura con gente che possiede titoli accademici o che tiene conferenze, gestisce case editrici, scrive sui giornali, da dimenticare che il mondo di norma non solo ignora i codici dei letterati, ma non è nemmeno in grado di vederli come lingua. Infatti, li scambia per rumore. In questi casi, il mondo di solito non distingue un segno dalla materia. Perché, contrariamente a quello che credono gli studenti di prima annualità di filosofia del linguaggio, i segni non significano niente; come diceva Tullio De Mauro, piuttosto significano le persone tramite i segni. Ma se le persone non hanno niente da significare in un determinato campo, e ignorano il codice, una lettera di Moravia non è nemmeno macchiata d’inchiostro: è solo una carta annerita. Anche Wittgenstein ripeteva che una regola non ha forza propria. Ci illudiamo che la regola funzioni da sé, quando invece funziona se qualcuno la fa funzionare. Così può accadere, come racconta uno dei massimi collezionisti italiani in Collezionismo di strada (Edizioni della casa di Goethe, 2018, 42 pagg., 7 euro), Giuseppe Garrera, che l’archivio di Giovanni Macchia finisca nel mercato domenicale di Porta Portese. In quel caso, i “selvaggi” abitavano in casa. Erano i parenti stretti, gli eredi. (Mi raccontava qualche giorno fa mio padre, che con rigore professionale e talento si diletta di storia non solo locale, del fatalismo con cui un amico e collega alludeva qualche anno fa agli scaffali della sua biblioteca. “Quando morirò, andrà dispersa” affermava con il tono di chi vuole che gli si dica che no, che rimarrà integra. Naturalmente poi l’uomo è morto e la biblioteca è effettivamente andata dispersa; e con una velocità più ragguardevole di quella paventata dall’interessato).
Ecco, allora, chi è il collezionista che definirei militante. Esattamente come il critico militante non si limita a studiare autori già canonizzati, ma è in prima linea, travolto ogni giorno da mareggiate di libri che gli lasciano sulla soglia di casa plichi, pacchi, buste di bozze di cui egli dovrebbe stabilire se siano segni o rumore (e anche i segni dozzinali, dal punto di vista della storia della letteratura, sono rumore), così il collezionista di strada è un crivello che deve decidere rapidamente cosa lasciar passare e cosa trattenere. Il genitivo, in questo caso, è importante: “di strada” significa trovarsi sul bordo del vortice e dover decidere nel giro di pochi istanti ciò che merita di finire nel nulla e ciò che merita di risalire alla superficie. Perché “c’è un giorno solo per le cose per salvarsi” e “i robivecchi non fanno pulizie e cernite, riversano tutto ciò che nella casa rivoltata come un guanto hanno raccolto”. E’ un ruolo, se ci si riflette, che può togliere il sonno. Quante volte abbiamo letto di capolavori andati distrutti per una distrazione, per leggerezza: le navi di Nemi riesumate con enormi sforzi prosciugando un lago e probabilmente bruciate da militari tedeschi ubriachi durante la ritirata del 1944, tanto per fare un esempio.
Una seconda suggestione legata all’attività del collezionista di strada è quella, di origine agostiniana, relativa alla coppia usura/fruizione. Una lettera della Ortese è un oggetto che dovrebbe essere fruito; eppure la storia tritura tutto e se la lettera non viene riconosciuta e curata finisce per usurarsi; Garrera mostra che quando i carichi giungono a Porta Portese sono avviliti anche per questo, perché hanno cominciato ad usurarsi, ridotti come sono a cumuli di oggetti. Ma le chiavi di lettura che Garrera adombra sono innumerevoli. Compare l’angelo nuovo di Benjamin, un essere che aleggia su chiunque sia impegnato a rallentare la macina inesorabile, ma sempre corruttibile o circuibile, del tempo; cui si potrebbe aggiungere il nome di Carlo Ginzburg, le cui tracce spie e serendipity hanno illustrato quale semiologia si celi dietro l’attività dell’esperto, del collezionista costantemente impegnato a separare, direbbe la Bibbia, il grano dall’oglio. Quello di Garrera è un libro non disordinato, ma caotico: perché la merce giunge sul mercato in forma caotica e perché le cacce al tesoro hanno qualcosa di febbrile, di onirico. I temi sono tanti, troppi, come se una metafora non bastasse a descrivere cosa realmente muove il collezionista di strada. A parte le pagine memorabili della Peau de Chagrin nelle quali Balzac, anticipando di fatto una teoria del postmoderno, lega antiquariato e miraggio di salvezza con il nodo del patto con il diavolo – Balzac, di cui si ricostruisce la visita a Roma e l’ossessione antiquaria in una città che per ovvie ragioni è la capitale del collezionismo – Collezionismo di strada è anche un saggio di etnografia: la descrizione dei mercatini di rigattieri a Roma, con la loro stratificazione sociale ed etnica è un capitolo importante della geografia cittadina. L’umorismo dei bancarellari romani fra l’altro si rivela di una qualità eccezionale, dadaista: venditori che gridano ai possibili clienti “Andiamo, è tutta roba già rubata! oppure, in un momento in cui nessuno si fermava: Non spingete, per favore, non spingete! Uno alla volta!” o ancora: “Oggi ci roviniamo, tutto al doppio!” Fino al sublime, sovralunare “Forza signori, qui c’è timidezza!” Emerge, in questi mercatini, l’animismo e feticismo dei compratori, che si rigirano fra le mani oggetti di nessun valore eppure magicamente intrisi della vita del precedente proprietario (confesso, a questo riguardo, di avere sempre attribuito un valore feticistico agli oggetti appartenuti ad altri superiore al valore feticistico che attribuisco agli oggetti posseduti da me). Le ipotesi interpretative si accavallano, come è giusto che sia attorno ad una pratica in cui la pulsione dell’accumulo ha un ruolo primario. La mitopoiesi e mitomania: “Ogni venditore a Porta Portese risulta un raccontatore di favole”. E' doveroso ricordare, a questo punto, che due scrittori importanti legati a Roma sono degli antiquari o provengono da una famiglia di antiquari: Filippo Tuena, che ha rubato alla Pelle di zigrino il titolo di un suo romanzo, Tutti i sognatori; e lo storico dell’arte e antiquario Marco Fabio Apolloni, autore del notevole romanzo Il mistero della Locanda Serny e di sonetti nello stile del Belli. Innegabili, le affinità elettive fra letteratura e antiquariato, soprattutto oggi: non è un caso che il primo romanzo spudoratamente postmoderno, L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon (1965), porti nel titolo e nell’explicit stupefacente un’asta. Forse viviamo tutti nel retrobottega di un robivecchi e non sappiamo come uscirne… Si staglia l’immagine del mercato che sogna se stesso, analogon terrificante della società postmoderna che attua il mito borgesiano e decostruzionista di un linguaggio il cui correlativo oggettivo non è il mondo, ma un altro linguaggio, in questo caso un’economia che vende se stessa in un circuito merce-denaro-merce-denaro infinita; quando Garrera parla di “giro fatato”, difficile non pensare al kula di Malinowski, la cui funzione puramente sociale volendo si può accostare all’ “economia prima dell’economia”, “prima della colpa” tipica dei giochi dei bambini. Appare sullo sfondo, in Collezionismo di strada, una posizione antimarxista Bataille-Baudrillard abituata a privilegiare una circolazione delle merci basata sullo spreco, la distruzione e l’eccesso più che sullo scambio. Strana economia, quella del collezionismo, vicina al furto e al dono: gli unici atti che secondo Deleuze e Guattari il desiderio conosca. Presenti gli aspetti maniacali, rimarcati da Roberto Calasso il quale in Come ordinare una biblioteca, la strenna Adelphi mandata ai giornalisti per il Natale del 2018 e che spero Garrera possegga, perché è anche un libro sul collezionismo e infatti si evoca la vicenda di Chatwin, racconta la storia del ricco uomo d’affari statunitense che ha messo insieme una collezione di seicentine, tutte in una stanza, due poltroncine e un tavolo… Compare l’accenno a lotti famosi, per esempio a quello, su cui ha scrtto un libro molto bello Lorenza Foschini, appartenente a Marcel Proust. Non manca un regesto dettagliato delle malattie professionali, né la descrizione degli abissi che separano l’antiquario dal bancarellaro, dallo stracciarolo e infine dal vero e proprio mendicante senza dimenticare il piacere del corto circuito fra alto e basso: come nel caso degli straccivendoli con in mano oggetti di solito maneggiati da professori (“Questo mi hanno detto che è un Guttuso al 100%”, dove l’aspetto esilarante è accresciuto dal cortocircuito fra l’oggetto prezioso per palati esigenti, il quadro di Guttuso, e il gergo da bancarellaro). Il mercato è un’isola del tesoro, una grotta di Alì Babà, una festa; e la festa, come hanno mostrato gli storici, è parente stretta della guerra e dunque della morte. La giornata di Chatwin, cui Garrera dedica pagine bellissime, si apriva alle nove con la lettura dei necrologi, in attesa che nuovi capovolgimenti permettessero di riportare alla vita alcuni cadaveri oggettuali. Perché la vita degli oggetti nelle mani di inconsapevoli padroni di tesori è un sonno (compare in una pagina l’immagine del dormitorio, evocata dagli oggetti allineati, imbacuccati nei fazzoletti e chiusi nei cassetti) o proprio la morte. Dopo la morte dei loro padroni, gli oggetti rischiano una seconda morte definitiva (dalla soffitta al cassonetto) ma per alcuni istanti tornano a vivere, o perlomeno a rischiare di tornare a vivere. Come detto, nientemeno che l’archivio di Giovanni Macchia ha rischiato di finire nell’immondezzaio, se Garrera non lo avesse salvato in articulo mortis ed anche a me, che ogni tanto cerco prima qualche edizione in rete, è capitato come a Garrera di vedere su ebay moltissimi libri con dedica autografa ad Alberto Ronchey. Ora, Ronchey ha una figlia che è una celebre bizantinista: perché questi libri sono finiti in vendita? Doppioni, probabilmente. O forse un parricidio postumo? Non mancano gli aspetti lugubri della vendita: “La costruzione della necropoli come spazio incantato e definitivo” fa il paio con gli oggetti relegati nel buio “come Barbablù le sue mogli”. E gli aspetti osceni: le vite private scoperte e buttate sul mercato; amori, lettere, ricordi deracinés e poi sottoposti alla prova del mutamento di contesto, per vedere quanto valgono al di fuori del loro ambiente. Alla fine, ci si dice che ogni oggetto è o può essere un talismano, proprio come la pelle dell’asino selvatico di Balzac: “gli oggetti hanno fortunatamente la specialità di impiantarsi nell’anima per poi dire all’anima che cosa fare, e insegnarle e indicarle i miraggi da fuggire, le terre da esplorare, i depositi e le stanze arieggiate da erigere, i giardini e le mura da costruire. Bisogna avere l’ingenuità dei credenti per mettere su una collezione. Ci si ripromette infatti grandi cose”. E visto che il collezionista, come scrive Goethe nel “Collezionista e la sua cerchia”, è un “rinunciante”, qualcuno che per dolore ha rinunciato all’attualità, prendendo la via alchemica del “separando”, non può che sognare, scrive Garrera indubbiamente commosso, “Di recuperare tutto intero il sogno del proprio regno perduto”.