giovedì 8 agosto 2013

Nemmeno un frammento di giada



Niente getta luce sulla cosiddetta “egemonia culturale della sinistra” quanto i resoconti dei viaggi effettuati nei paesi del socialismo reale dagli intellettuali progressisti più influenti. Vengono a galla le ambiguità, l’arte sopraffina di svicolare, la capacità di ficcarsi nei peggiori vicoli ciechi pur di non vedere “la lettera rubata”, il problema macroscopico sotto gli occhi di tutti. Da questo punto di vista, l’estate del 2013 permette alcuni eccellenti esercizi di memoria, perché è un’estate cinese: tornano nelle librerie due opere di Alberto Moravia e Giorgio Manganelli dedicate al Celeste Impero. Del primo Bompiani riedita, per le cure di Luca Clerici, lo scritto del 1967, La rivoluzione culturale in Cina ovvero il Convitato di pietra (LXX-199 pagg., 10 euro). Corredato da undici, orribili fotografie scattate dalla compagna Dacia Maraini, vera analfabeta dell’immagine, allora probabilmente convinta che solo la bruttezza avrebbe salvato il mondo, il volume ebbe una seconda giovinezza qualche anno dopo, presso Garzanti. Di Manganelli, invece, Salvatore Silvano Nigro ha curato con mano fermissima un’edizione di Cina ed altri orienti (Adelphi, 346 pagg., 22 euro) grande il doppio rispetto alla precedente edizione del 1974 e comprensiva, oltre che di Cina, Filippine e Malesia, anche di pagine straordinarie sul Medio Oriente, scritte in un’epoca in cui gli americani ancora non ne avevano fatto il loro oggetto persecutorio avendo a disposizione, per quello scopo, il morente blocco comunista. In quegli anni la Cina andava di moda: anche Antonioni aveva girato un documentario in Cina (incredibile la sequenza del parto cesareo effettuato senza anestesia, con l’agopuntura), mentre il film di Bellocchio La Cina è vicina, storia di un miliardario che si candida per il partito socialista, è un contributo di segno opposto, uno sberleffo - ancora oggi molto divertente - al radicalismo politico che imperversava allora in Italia e in tutt’Europa.
La genesi dei volumi è diversa. Moravia, che già era stato in Cina nel 1937 saltando su un battello cromato pieno di fissati per i night-clubs di Shangai, torna a viaggiarvi assieme alla Maraini nel 1967, come inviato del "Corriere della Sera". Da qualche mese impazza la famigerata Rivoluzione culturale, il colpo di coda con cui un Mao senile, mobilitando migliaia di studenti e trasformandoli nelle fanatiche guardie rosse, mette alle corde la frangia moderata del Partito, che lo aveva estromesso dal potere. La “missione” è quasi impossibile: riuscire a scrivere della Cina senza pestare i calli filocinesi dei suoi amici maoisti (a cominciare da Godard; ma non bisogna dimenticare i simpatizzanti del “Manifesto”) né quelli, borghesi, dei lettori del "Corriere". Quanto a Manganelli, apparentemente giunge in Cina nel 1974, corpo estraneo in un aeroplano di cumenda; “Non so bene se sono nato professore, o se avevo i segni nella mano di un esploratore andato a male”, si chiede. In realtà, è caduto nella trappola tesa dal suo psicanalista, Bernhard, il quale aveva pregato il celebre archeologo e indianista Giuseppe Tucci, direttore dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, di fare in modo che Manganelli viaggiasse, ritenendolo l’unico sistema per guarirlo dalla nevrosi. Diversa è anche la preparazione al viaggio. Se Moravia è un lettore onnivoro e sapiente, ma anche capace, per eccesso di metabolismo, di mancare del tutto l’oggetto, Manganelli da buon professore di università sa cosa vuol dire immergersi in una materia e comprenderla attraverso una bibliografia.
Una volta atterrati, però, né Moravia né Manganelli possono o vogliono dire che la Cina comunista è uno stato totalitario in cui l’uguaglianza, la medicina politica più difficile da dosare, viene iniettata in dosi massicce nella società finché essa non si dissolve. Del resto, prendete una qualsiasi delle virtù più specchiate, per esempio la giustizia, la carità, la libertà; isolatela da tutte le altre, e rendetela onnipotente: e avrete una serie ordinata di regimi grotteschi o feroci, di stati dai quali fuggire a gambe levate. Come girare intorno a questa enorme, ingombrante verità? Come far accettare che settecento milioni di cinesi parlino alla stessa maniera, che l’onnipresente immagine di Mao faccia impallidire il più sinistro dei Grandi Fratelli, che l’uguaglianza superi la barriera delle mutande (uomini e donne vestono allo stesso modo, la società cinese è forzosamente asessuata: “mai, durante il mio viaggio in Cina, ho visto una coppia tenersi per mano”, scriverà Manganelli)? Semplice: evocando il sogno chic e tedioso di un’esistenza  ridotta all’osso. E’ come se Moravia volesse competere con La scimmia nuda di Desmond Morris, volume pubblicato nella sua stessa collana Bompiani (“Cose d’oggi”), proponendo un’antropologia altenativa. Sorto con il Cinismo (Diogene cercava “l’uomo naturale”, cioè privo delle deformazioni prodotte su di lui dalla cultura), tornato a furoreggiare durante il Medioevo pauperistico, rispuntato in Età moderna fra le esotiche piume del buon selvaggio e oggi dilagante nelle pieghe dell’ideologia ecologica o anticonsumista, il mito di un essere che rigetta il superfluo viene ripreso da Moravia e applicato al modello cinese. “L’uomo nasce sfornito di tutto. Ora, il necessario per diventare uomo sta nei limiti della povertà. Al di là di questo limite comincia la ricchezza, cioè la superfluità; una condizione anormale, perciò disumana”. Il gioco è fatto: il Grande Timoniere non sarebbe un tiranno, ma un moralizzatore che con le buone o le cattive costringe l’uomo ad essere se stesso. Se per Madame de Staël Napoleone era un Robespierre a cavallo, per Moravia Mao è un Diogene uscito dalla botte ed entrato con lo scettro nella stanza dei bottoni. Solo negli anni ’80 l’antropologia filosofica si sbarazzerà di questo pericolosisismo equivoco dimostrando che la civiltà non è basata sulla necessità (e sull’”invenzione” che dovrebbe esserne il “rimedio”, come sosteneva Democrito), ma sul lusso: altrimenti non si spiegherebbe come mai l’uomo, dopo aver inventato le capanne e scoperto il fuoco, raggiunti gli altri animali ben dotati dal titano Epimeteo, invece di darsi pace inventi i grattecieli e il termosifone. Chissà che non sia proprio questa ricerca dell’uomo nella sua essenzialità, non il fastidio per il cattivo gusto o lo sfruttamento, a muovere l’indignazione di una Boldrini verso il baraccone di Miss Italia... Diogene cinico, lui, non lo aveva compreso: aveva scambiato la causa principale, cioè il desiderio di lusso, per una degenerazione del rimedio... Ora, è possibile un cinismo di stato? Uno stato, cioè, che imponga a tutti di fare a meno del superfluo? Non lo sappiamo, ma è questo che Moravia cerca di distillare nella Cina di Mao, sebbene alla tesi classica di un progresso dell’umanità nato dal bisogno Moravia non creda fino in fondo, essendo anche borghesemente convinto che la civiltà non sia basata sul bisogno, ma sul lusso e lo sperpero. E’ questa la scandalosa verità che fa orrore ai moralisti di ogni tempo e che Moravia ha il coraggio di piazzare nel sottotitolo, e poi di adombrare nell’ultimo capitolo. Mao è il “convitato di pietra”, pronto a trascinare all’inferno l’autore degli Indifferenti colpevole di aver cenato a base di raffinatissima anatra; un Moravia-Don Giovanni che mozartianamente non vuole pentirsi di nulla, e men che meno dei suoi “vizi” borghesi. Finalmente, la Rivoluzione culturale si rivela per ciò che è: una rivoluzione anticulturale, cioè oscurantista. E il fatto che la Maraini, quella sera, avesse rifiutato l’anatra (“Da’ qui, mangerò io per te, la mia parte e la tua”, le dice Moravia) spiega perché lei scattasse foto così brutte, e lui scrivesse romanzi così buoni.
Anche Manganelli subisce il fascino perverso dell’omogeneità: “Io non so mai con chi parlo, forse è un ministro, forse un cameriere.” Con ragionamento capzioso, le uniche uniformi sarebbero quelle occidentali: “Da noi, quello si veste da avvocato, quello è un professore”. Ragionamento da gesuita: perché la obbligatoria giubba blu del contadino cinese non prelude alla infinita diversità delle indoli, tutte da scoprire sotto il velame, ma, attraverso una simmetria fra esterno e interno, a una obbligatoria uniformità mentale e culturale. Gli “assistenti”, poi, cioè le guardie rosse che impediscono ai visitatori di uscire dal gruppo, non li sorvegliano: li custodiscono. L’ossessione delle guide per l’orologio è una conseguenza dell’etichetta (“talora un nostro assistente sembrava angosciato dalla nostra approssimativa puntualità”), non un mezzo per neutralizzare il rischio di un contatto con la società cinese. Ma poi, pagato un tributo allo Spirito del tempo e incapsulato con una mossa da prestigiatore il “mostro” politico in un’antonomasia - per Manganelli i cinesi sono, beffardamente, “gli Uguali”: e il lettore avverte che dietro quella formula c’è qualcosa che assomiglia al sarcasmo, e forse a una denuncia - ci si può dedicare alla Cina immemoriale dei draghi araldici, delle concubine suicidate, degli ideogrammi incomprensibili e terrificanti. Del resto in Europa l’Oriente è sempre stato il luogo della ricchezza, dello sfarzo, della vastità; un mito generatosi nel mondo antico e poi confermatosi nel Medioevo, fra il IX eil X secolo, quando gli europei erano quattro gatti terrorizzati rinchiusi nelle certose, mentre l’Impero bizantino era composto da milioni di uomini che vivevano in nazioni tutte d’oro. Questo Oriente, Moravia lo nega, e forse lo uccide. Manganelli, invece, non se ne lascia scappare nemmeno un frammento di giada. Per l’autore di Hilarotragoedia la Cina non è il regno della naturalezza, come per Moravia: è il regno dell’artificio e rassomiglia al Settecento francese. Moravia è ancora un umanista, e crede che il politico sia o possa essere uno strumento di elevazione dell’umanità. Mentre Manganelli, che pure alla fine della Seconda guerra mondiale rischiò di essere fucilato dai tedeschi, è abbastanza scettico sul destino dell’uomo e probabilmente sospetta che Mao sia una schiuma sul mare della Storia. Meglio dare prova della sua sublime, inimitabile arte umoristica. Nel Palazzo d’Estate “solo l’acqua del lago era vera”. La Grande Muraglia? “Niente di più lontano dalla Maginot”. Per tacere delle pagine sulla cucina cinese, che satireggiano le rodomontate del regime: “Tortelli fritti si rivelano involtini di carne, sembra cioccolata ed è soia, ci sono pesci molli e di scura tinta che simulano il maiale.” Un pasto di cento portate “non è una spacconata”; compaiono le “sinuose e viscide oloturie”, poi i cibi composti di “secrezioni animali” mentre l’anitra laccata alla pechinese, che “prevede una cottura dall’interno dell’animale, rasenta il vilipendio di cadavere”. Il pasto si chiude con una “capigliatura d’alghe”: antifrasi derisoria, chissà quanto ricercata, di Mao, ennesimo dittatore dalla fronte completamente calva.
Resta da aggiungere, che per Moravia e Manganelli la Cina si accomoda a diventare una metafora della loro scrittura. Per l’autore di Agostino il Celeste Impero è un analogon della sua prosa classicistica, nel senso in cui intendeva il “classico” il Valéry lettore di Bossuet: fare un uso infinito, e sublime, di mezzi finiti, cioè tirar giù una prosa dalla qualità inarrivabile (leggere Moravia dà i brividi) servendosi di un lessico di tremila parole, spesso in questo modo superando nel risultato l’altra musa allora in gara per il titolo di maggiore scrittore italiano, Gadda, al quale non ne bastavano trecentomila. Se la Cina di Moravia è lo specchio della sua prosa piana e fintamente “omologata”, quella di Manganelli sarà ovviamente increspata, barocca e ultrametafisica.