venerdì 26 febbraio 2016

Solo una voce




Molti anni prima che Il nome della rosa diventasse un best seller mondiale, finendo negli scaffali delle portinerie e sulle mensoline dell'elettrauto, Umberto Eco era già un intellettuale famoso: uscito dalla scuola di Luigi Pareyson, uno dei padri dell'estetica italiana, si era laureato nel 1954 su Tommaso D'Aquino, inaugurando un'attenzione per il Medioevo che non lo abbandonerà mai. Raggiunse la notorietà qualche anno dopo, nel 1962, conquistando i francesi - sempre bramosi di facili liberazioni - con un saggio dal titolo folgorante, Opera aperta. Vi si spiegava che esistono due tipi di testi: quelli che permettono solo una lettura, le opere "chiuse" (per esempio il libretto di istruzioni di un frullatore), e quelli che non cessano di generare interpretazioni. Decine di scrittori, racconterà poi l'autore, bussarono alla sua porta per sapere se le loro opere fossero aperte; e se sì, quanto.
L'anno successivo alla pubblicazione di Opera aperta è quello del "Gruppo 63", la neoavanguardia senza manifesto nata a Palermo sulla scia dell'austriaca Gruppe 47 di Ingeborg Bachmann, Celan e Enzensberger. Assieme a Guglielmi, Sanguineti ed altri, Eco apre euforicamente il fuoco contro la letteratura tradizionale. I Cassola e i Bassani tremano, anche perché l'attacco funziona: d'ora in poi, l'Italia disporrà di una separazione netta fra cultura alta e cultura popolare. Separazione fluidificata lo stesso anno dando alle stampe il fenomenale Diario minimo, raccolta di pseudo-saggi, pastiches, micro-capolavori di humor nero. Un professore ama le ottuagenarie? E' subito "Nonita", parodia della Lolita di Nabokov. Il nouveau roman furoreggia? Eco lo incenerisce con una irresistibile esquisse d'un nouveau chat. Il Diario minimo contiene anche la celebre "Fenomenologia di Mike Bongiorno" ("Mike Bongiorno non piace perché è un supeman, ma perché è un everyman"...); e l'"Elogio di Franti", assassinio a freddo di quel callido mistagogo e padre putativo della Patria che fu De Amicis: "In Cuore, a un giorno di distanza, De Amicis tesse l'elogio di Cavour e di Mazzini, dimostrando di non aver capito nulla delle profonde incompatibilità che divisero il nostro Risorgimento". Trent'anni dopo, il Secondo diario minimo cesurerà la mania dilagante per il decostruzionismo. Ma sullo scambismo di Eco fra alto e basso, nobile e triviale, colto e filisteo bisognerebbe aprire un capitolo a parte. Eco adorava la cultura pop. Dumas, i fogliettoni di Sue, la fantascienza di Verne. Il fumetto, l'enigmistica, la teoria del complotto. Tutto gustato con l'entusiasmo del ragazzino che si gode il romanzo di pirati. Ma era anche capace di zittire il tassista molesto che gli parlava di calcio ricoprendolo di informazioni dettagliate sui costruttori tedeschi di flauti rinascimentali, che Eco suonava "sempre peggio, almeno a detta di Luciano Berio".
Apocalittici e integrati è il titolo del 1964 entrato stabilmente nel gergo delle persone colte. Sono apocalittici gli intellettuali convinti che il meglio sia passato, che ci attenda un medioevo prossimo venturo, che gli scrittori di ieri siano infinitamente più bravi di quelli di quelli di oggi. Gli integrati sono quelli che dicono "Però, non è male, questa televisione..." Notare che i sopravvissuti del "Gruppo 63" si sono tutti convertiti all'Apocalisse: da Gugliemi a Arbasino a Vassalli. Ma Apocalittici e integrati contiene anche un'analisi del concetto di kitch con cui gli italiani apprendono a difendersi dai romanzi montati a tavolino per fare cassa. Quanti lettori di Apocalittici e integrati amano Margareth Mazzantini? Nessuno, statene certi. Se poi nella categoria di kitch finisce anche Il vecchio e il mare, fra la costernazione delle professoresse di lettere, pazienza.
Negli anni Settanta, l'età dell'imperialismo della Semiotica, Eco diventa una sorta di nume tutelare della scienza dei segni. I saggi sull'argomento si moltiplicano, manca solo un riconoscimento accademico della disciplina. Scrive allora una lettera all'altro dioscuro delle scienze del linguaggio, Tullio De Mauro, pregandolo di convincere il suo maestro Antonino Pagliaro - grande linguista, professore di mistica fascista durante il Ventennio ed ora dotato di attinenze cospicue nel ministero eternamente democristiano della pubblica istruzione, che la Semiotica non è un'invenzione degli svizzeri; esiste da sempre nella mente di Dio e dunque merita la creazione di una cattedra. E cattedra sarà poco dopo, nel 1975, l'anno del DAMS. Il dipartimento bolognese di arti e spettacolo, rutilante fabbrica di disoccupati, è anche l'ultimo bagliore del Sessantotto "creativo", prima che giungano gli anni di piombo. Ma che nessuno pensi ad una centralità in patria, nell'università italiana: accademicamene isolato, Eco era un'isola echiana in un mare di infidi greimasiani.
Il 1975 è anche l'anno del Trattato di semiotica generale, un libro brutto che non si leggeva con piacere e che pasticciava molto in un campo già di per sé confuso, quello dei segni; ma intanto Eco aveva già pubblicato altri saggi più brevi (per esempio Il segno, del 1973) che generazioni di studenti di filosofia useranno con profitto.
Il superuomo di massa, anno 1976, rivela che il superomismo diffuso fra la gente deve meno a Nietzsche e a D'Annunzio di quanto non debba all'Uomo ragno: avvertendo nel contempo che Superman, in quanto individuo che combatte la criminalità scavalcando le istituzioni democratiche, è un'idea pericolosa, parente stretto dell'Uomo della Provvidenza e di addavenì Baffone.
Nel 1982, in un clima profondamente cambiato, Eco tenta la strada del romanzo. Le prime ottanta pagine de Il nome della Rosa sono un tuffo nel Medioevo latino che oggi provocherebbero una crisi isterica al più avventuroso degli editor. Un romanzo per pochi? Eco dichiarerà più volte, non senza divertimento, che intendeva far stampare Il nome della rosa in edizione numerata da Franco Maria Ricci, a sue spese, per spedirlo agli amici. Quel che invece accadde è troppo noto per ricordarlo qui. Il romanzo aveva un palinsesto, sceneggiava gli ultimi vent'anni di filosofia europea e in particolare il predominio dell'ermeneutica. Guglielmo da Baskerville, il monaco-detective che scopre l'assssino, è il semiologo empirista e antidogmatico convinto che non esistano fatti, solo interpretazioni. Mentre il serial killer in tonaca, Jorge, è un dogmatico che incendia la biblioteca, il suo Reichstag, perché non si legga la seconda parte della Poetica di Aristotele, contenente un fantomatico elogio del riso. Il nome della rosa è per metà un cadavere squisito, per metà un solido romanzo di genere. Il critico letterario più generoso, Walter Pedullà, si sforzò di fare un complimento ed ammise che il romanzo di Eco "non è acqua". I danni fatti dal Nome della Rosa alla letteratura mondiale sono incalcolabili e tutt'ora incalcolati: libro senz'anima ed esornativo, implica un lettore vampirizzato nelle cui vene, al posto del sangue, viene immessa una linfa snobistica e posticcia fatta di erudizione e compiaciuta ideologia.  
Meno di dieci anni dopo, i tempi sono maturi per la svolta anti-ermeneutica: nel Pendolo di Foucault il cancro che uccide Abulalfia allude alle conseguenze di una interpretazione libera, ormai assimilata ad una metastasi. Sul piano saggistico, I limiti dell'interpetazione (1990) è il libro  crudele, a partire dal titolo, con il quale Eco spiega ai suoi studenti in lacrime che la sbornia ermeneutica è finita, che chi interpreta male finisce male e che insomma l'uomo deve rispettare il significato dei segni, altrimenti muore. Già Roland Barthes, del resto, aveva detto senza mezzi termini che la lingua è fascista. Peccato che nella società postmoderna, quella che lui stesso aveva contribuito a creare, di rovelli filologici e interpretazioni "rette" ormai nessuno volesse più saperne.
Dopo Il pendolo, altri romanzi sempre più venduti e sempre meno riusciti, fino alla recente, diffusa insofferenza per Il cimitero di Praga. Ma che importa? Una bibliografia chilometrica che copre una quantità di campi diversissimi; la capacità di incidere sulle discussioni più disparate; la luciferina capacità di dominare con una ragione muscolare e raffinatissima chiunque provasse ad ostacolarlo, a costo di atti di impressionante violenza verbale che i suoi allievi, prima che i suoi nemici, temevano: questo era Umberto Eco. Da sempre attratto dalla Gnosi, trovava da villani prendere sul serio l'idea di complotto. Perché nell'universo di Eco non esiste un fuori che spieghi il dentro, un alto che spieghi il basso, un "oltre" storico o morale che dia senso al presente. Nello sterminato dizionario dell'unico intellettuale di cui si potrebbe dire che è stato, nella seconda metà del Novecento, ciò che Croce fu nella prima, solo una voce è stata lasciata deliberatamente in bianco: quella del sublime.