“Durante un viaggio a
Lanzarote con la Ryanair, a un certo punto lo steward ci ha
annunciato che ci avrebbe venduto i biglietti del rasca
y gana, cioè del
gratta-e-vinci, e che in palio c’erano un soggiorno a Las Vegas,
una Seat Ibiza e addirittura un milione di euro. Allora finalmente ho
capito: quel che stavamo risparmiando sul biglietto lo pagavamo in
volgarità.”
Ho scelto di citare questo
brano, che si legge nell’ultimo lavoro di Walter Siti, Pagare
o non pagare (Nottetempo,
135 pagg., 12 euro), anche se si tratta di un passo che si presta al
fraintendimento. In realtà, Siti non nutre alcuna pregiudiziale
verso il denaro: in una delle pagine più allegre del libro l’autore
racconta di quando, diventato professore universitario, invece di
farsi accreditare lo stipendio sul conto in banca preferiva andarlo a
ritirare allo sportello, in moneta frusciante: “l’impiegato
contava le banconote da cento e cinquantamila, che erano parecchie, e
alle mie spalle qualcuno del personale non docente commentava, tra
l’ammirato e l’invidioso: ma non finiscono mai!” Le prime
pagine di Pagare o
non pagare compongono
un felice ritratto dello scrittore come acquirente (anche sessuale) e
non mostrano alcuna simpatia per il pauperismo che hanno i fanatici
della decrescita felice. Domina, al contrario, il piacere di
spendere. Perché, dunque, la volgarità? Perché l’istigazione
alla volgarità è un caso di “danno economico di nuovo tipo”.
Sono danni di vecchio tipo lo sfruttamento della manodopera, il
precariato, la fragilità del sistema bancario e di quello
industriale. Ben più allarmanti i danni di nuovo tipo, prodotti da
un sistema economico che dopo aver conquistato il pianeta, non
potendo più estendere il suo dominio in senso orizzontale ha
iniziato a scavare nelle profondità dell’essere umano, costituite
in gran parte dal piano simbolico. L’“economia del gratis” –
i ristoranti all you
can eat, i siti di
couchsurfing,
il software di
Linux, la possibilità di telefonare spendendo pochi centesimi o di
fare sesso gratuito con sconosciuti approfittando di Tinder o di
Grindar – ci chiede solo di non disturbare la cornice
politico-finanziaria che le consente di funzionare; e poi di cederle,
per un piatto di lenticchie, dei pezzetti di anima. E questo è
intollerabile. Pagare
o non pagare non è
dunque solo una postilla saggistica al romanzo sulla new
economy con cui
Siti vinse il premio Strega, Resistere
non serve a niente,
scritta allo scopo di dar conto dei fenomeni più vistosi degli
ultimi anni come l’irresistibile successo di Amazon o l’onnipotenza
di Google. E’ anche il resoconto di una correzione di tiro.
L’anti-umanismo e il fatalismo, con cui si flirtava in quel
romanzo, vi appaiono attenuati. Se Resistere
non serve a niente,
con la sua tesi gridata già nel titolo dell’inutilità di ogni
tentativo di difesa dell’essenza umana, evocava il celebre aforismo
di Adorno sui medici “che con un’alzata di spalle hanno rivelato
la loro segreta intesa con la morte”, Pagare
o non pagare riconduce
ad alcune considerazioni di
Malaparte sulla pelle e sull’anima. Le ricordate? Quando gli
italiani dovevano difendere la loro anima erano pronti ai più
fulgidi eroismi, mentre adesso che devono salvare la pelle non c’è
argine alla degradazione. Il sospetto è che l’ultimo giro di vite
del sistema economico mondiale, con la sua manifesta abilità nel
ricavare profitti dalla devastazione dell’immaginario – cioè,
più semplicemente, della cultura – abbia spinto Siti a una
reazione. E’ un modo di riconoscere che resistere, ogni tanto, può
servire a qualcosa.