domenica 8 aprile 2018

Moneta frusciante




Durante un viaggio a Lanzarote con la Ryanair, a un certo punto lo steward ci ha annunciato che ci avrebbe venduto i biglietti del rasca y gana, cioè del gratta-e-vinci, e che in palio c’erano un soggiorno a Las Vegas, una Seat Ibiza e addirittura un milione di euro. Allora finalmente ho capito: quel che stavamo risparmiando sul biglietto lo pagavamo in volgarità.”
Ho scelto di citare questo brano, che si legge nell’ultimo lavoro di Walter Siti, Pagare o non pagare (Nottetempo, 135 pagg., 12 euro), anche se si tratta di un passo che si presta al fraintendimento. In realtà, Siti non nutre alcuna pregiudiziale verso il denaro: in una delle pagine più allegre del libro l’autore racconta di quando, diventato professore universitario, invece di farsi accreditare lo stipendio sul conto in banca preferiva andarlo a ritirare allo sportello, in moneta frusciante: “l’impiegato contava le banconote da cento e cinquantamila, che erano parecchie, e alle mie spalle qualcuno del personale non docente commentava, tra l’ammirato e l’invidioso: ma non finiscono mai!” Le prime pagine di Pagare o non pagare compongono un felice ritratto dello scrittore come acquirente (anche sessuale) e non mostrano alcuna simpatia per il pauperismo che hanno i fanatici della decrescita felice. Domina, al contrario, il piacere di spendere. Perché, dunque, la volgarità? Perché l’istigazione alla volgarità è un caso di “danno economico di nuovo tipo”. Sono danni di vecchio tipo lo sfruttamento della manodopera, il precariato, la fragilità del sistema bancario e di quello industriale. Ben più allarmanti i danni di nuovo tipo, prodotti da un sistema economico che dopo aver conquistato il pianeta, non potendo più estendere il suo dominio in senso orizzontale ha iniziato a scavare nelle profondità dell’essere umano, costituite in gran parte dal piano simbolico. L’“economia del gratis” – i ristoranti all you can eat, i siti di couchsurfing, il software di Linux, la possibilità di telefonare spendendo pochi centesimi o di fare sesso gratuito con sconosciuti approfittando di Tinder o di Grindar – ci chiede solo di non disturbare la cornice politico-finanziaria che le consente di funzionare; e poi di cederle, per un piatto di lenticchie, dei pezzetti di anima. E questo è intollerabile. Pagare o non pagare non è dunque solo una postilla saggistica al romanzo sulla new economy con cui Siti vinse il premio Strega, Resistere non serve a niente, scritta allo scopo di dar conto dei fenomeni più vistosi degli ultimi anni come l’irresistibile successo di Amazon o l’onnipotenza di Google. E’ anche il resoconto di una correzione di tiro. L’anti-umanismo e il fatalismo, con cui si flirtava in quel romanzo, vi appaiono attenuati. Se Resistere non serve a niente, con la sua tesi gridata già nel titolo dell’inutilità di ogni tentativo di difesa dell’essenza umana, evocava il celebre aforismo di Adorno sui medici “che con un’alzata di spalle hanno rivelato la loro segreta intesa con la morte”, Pagare o non pagare riconduce ad alcune considerazioni di Malaparte sulla pelle e sull’anima. Le ricordate? Quando gli italiani dovevano difendere la loro anima erano pronti ai più fulgidi eroismi, mentre adesso che devono salvare la pelle non c’è argine alla degradazione. Il sospetto è che l’ultimo giro di vite del sistema economico mondiale, con la sua manifesta abilità nel ricavare profitti dalla devastazione dell’immaginario – cioè, più semplicemente, della cultura – abbia spinto Siti a una reazione. E’ un modo di riconoscere che resistere, ogni tanto, può servire a qualcosa.