venerdì 15 maggio 2015

L'odore di quella sottana



“Avevo Tartufo a pochi metri da casa, abitava nel mio quartiere, si moltiplicava nella società in cui vivevo, si riproduceva nei politici e negli intellettuali che incontravo ogni giorno. Lo si poteva incontrare a destra e a sinistra, tra i democristiani e gli ideologi del futuro partito armato. Mio dio, era dappertutto. L’odore di quella sottana era tale che si apriva solo un piccolo, piccolissimo spazio per respirare.”
Sono toni da assediato e che rasentano la paranoia quelli con cui Cesare Garboli descrive la sensazione di essere circondato dagli avatar del suo nemico giurato: Tartufo, il falso devoto, il pretucolo di Molière. Tutto inizia negli anni ’60, quando l’Einaudi decide di pubblicare un Millennio su Molière e gliene affida la curatela. Garboli offre la prefazione a Gadda, che rifiuta con la stupefacente (ma, per lui, perfettamente logica) motivazione che accettare lo avrebbe costretto a denunciare le piaggerie di Molière nei confronti del Re Sole. Quanto alle traduzioni, il giovane e già invidiato critico letterario si sobbarca quella del Tartufo, ritenuta la commedia dell’ipocrisia e della falsa devozione; o al massimo l’inchino di Molière a Luigi XIV, che in quel momento era innamorato, mandava al diavolo Bossuet e attraversava una stagione di libertinaggio.
A prima vista, Tartufo è un banale finto prete che si incista in una famiglia borghese sana e dopo averne plagiato il capofamiglia, e piegato la consorte, ne sposa la figlia. Almeno, così accade nella prima versione della pièce. Carlo Cecchi, cui si deve il volume Adelphi che ora finalmente raccoglie gli scritti di Garboli sull’argomento (Tartufo, 176 pagg., 13 euro, con una nota di Carlo Ginzburg) ricorda che in quegli anni chi andava in cerca di tartufi li trovava a Parigi, perfettamente mummificati dagli attori della Comédie Française; oppure in spettacoli abortiti, pre-molieriani, in cui trionfava il farsesco.
In Garboli scatta la fascinazione. “In un certo senso debbo dirmi fortunato. La riduzione di Tartuffe al cliché dell’ipocrita ebbe per effetto di consegnarmelo come nuovo. Mi trovai fra le mani un copione sconosciuto, un oggetto che bruciava. Ogni battuta era una sorpresa.”
Tartufo diventa “un avvocato della verità, altro che impostore.” Lo stereotipo dell’ipocrita viene fatto saltare: quando Tartufo, dopo un’attesa interminabile di due atti, compare finalmente in scena e si mette a distribuire cilici, “non è affatto l’ipocrisia del gesto a stupirci. Sentiamo anzi che il gesto, in certo modo, rinvia a una misteriosa sincerità.” E poi, “se c’è un aspetto di Tartufo che ci incuriosisce non è l’ipocrisia, è il vampirismo”. Sembra un criminale? Forse lo è, ma di una “criminalità formalmente ineccepibile, legalmente inattaccabile”. L’ufficiale del re che alla fine, in uno dei più goffi deus ex machina della storia del teatro (peraltro estorto a un Molière ricattato dalla pubblica opinione, cioè dagli spettatori che siedono in platea), lo smaschera, non ha niente in mano: un normale caso di malagiustizia al tempo del Re Sole. Perché Tartufo non fa quasi niente: come lo psicanalista, che tace  e si limita a lasciar parlare il paziente, sceglie “il silenzio, e non la chiassata, per fare del terrorismo in una casa schizzata di bile nera”.
Ce n’è abbastanza per decidere che Tartufo deve diventare un personaggio centrale, al pari di Amleto e di Don Giovanni. Ma la “catastrofe” vera e propria giunge quando Garboli propone a Squarzina di rappresentare a Genova il “suo” Tartufo, un Tartufo del tutto inedito. La raggelante risposta (“In Italia Molière è irrappresentabile”) dà luogo ad una delle intuizioni più conturbanti della storia della critica. Garboli comprende che la rimozione del personaggio, per l’Italia, è stata “una sciagura nazionale”. Se il Tartufo non si può rappresentare a Roma o a Milano, se non si può vaporizzare sulla gente come un benefico vaccino distribuito nelle sale da teatro, vuol dire che quel virus circola liberamente. Tartufo è ovunque. E’ lo psicanalista Verdiglione, emulo di un Lacan che “vestiva lane chiare, portava il papillon e amava lo sci d’acqua; appena poteva, si faceva trainare dal motoscafo”. Tartufi gli intellettuali e i politici, perché se “una volta si distingueva fra cappa e spada”, adesso la cappa, cioè la cultura, agisce con modi violenti, mentre la spada, cioè il potere, per affermarsi ha bisogno di organizzare mostre. “Tre secoli fa Tartufo aveva bisogno della religione; oggi, non può fare a meno della cultura”. Tartufi i democristiani e i comunisti, i terroristi e i qualunquisti...
Ridotto a oggetto persecutorio, a bieca ipotiposi dell’impossibilità di distinguere fra malattia e salute, Tartufo minaccia lo stesso Garboli: “Tartufo ci è vicinissimo, infinitamente più vicino dello stupido Orgone”, scrive come per esorcizzare in anticipo il momento in cui giungerà il sospetto di essere, anche lui, una delle sue copie carbone. Le ragioni per farlo, in effetti, non mancano. Tartufo è “personaggio servile” per un Garboli che aveva intitolato un suo libro Scritti servili (anche se in quel caso l’identificazione era con Sganarello, il servo di Don Giovanni). Eppure l’esito della lotta con l’angelo, miracolosamente, segnerà un punto a favore del critico: si chiude questo terribile volumetto, che a leggerlo fino in fondo toglie il sonno, riconoscendo che in centinaia di pagine dedicate al finto prete dalle orecchie rosse e dalle labbra umide Cesare Garboli è riuscito a non ammettere nemmeno una volta, nemmeno per celia luciferina, che Tartuffe c’est moi.