giovedì 29 giugno 2017

Quale sarebbe la prova


Nella Bibbia, nel Libro dei Giudici, c’è un passo famoso. Dopo aver sconfitto gli Efraimiti, i Galaaditi costrinsero i nemici sopravvissuti, che tentavano di fuggire guadando il Giordano, a pronunciare la lettera “scibbolet”, un suono molto difficile da pronunciare per gli stranieri. Chi non riusciva a pronunciare il suono veniva sgozzato. Chi, invece, riusciva a pronunciarlo correttamente dimostrava di essere “dei nostri” e veniva graziato.
Ora, immaginiamo di sottoporre noi europei, noi occidentali a qualcosa di simile (cornice truce a parte). Quale sarebbe la prova che siamo davvero europei, davvero occidentali? Qual è il nostro “scibbolet”? Mi sono posto questa domanda dopo aver appreso la notizia che in Francia un sacerdote cattolico, padre Jacques Hamel, era stato ucciso nella sua chiesa. Nell’Europa del XXI secolo, dunque, c’è stato nientemeno che un “assassinio nella cattedrale”; con l’aggravante che mentre l’omicidio commissionato nel 1170 da Enrico il Plantageneto ai danni di Tommaso Becket  - e portato sulle scene da T.S. Eliot nel 1935 - rappresenta un momento essenziale nella storia della separazione fra Stato e Chiesa (il re inglese voleva ridurre i privilegi del clero, operazione alla quale Tommaso, spalleggiato dal papa di Roma, si opponeva), la morte di padre Hamel configura uno scontro (orizzontale) fra due religioni ed è in un certo senso più “arcaica”, essendo stata causata da fanatici musulmani.
Prima di proseguire, a scanso di equivoci, premetto che quando parlerò di “terrorismo di matrice islamica” o di “fanatici musulmani” mi riferisco a quei fedeli che dimenticano e cancellano (“neutralizzano”, direbbero i semiologi) il potenziale di tolleranza e umanità  implicito nel Corano e invece ingigantiscono (“magnificano”, direbbero sempre i semiologi con un brutto anglicismo) i suoi passi “bellici”; interpretano, cioè, alla lettera i passi del Corano (ve ne sono di analoghi anche nella Bibbia) in cui si legge che il musulmano dovrebbe conquistare all’Islam il mondo intero. D’altro canto è con loro che a quanto pare bisogna fare i conti.
Sia detto subito e senza esitazioni: con tutto il rispetto per la vittima, che un sacerdote cristiano sia stato ucciso in chiesa e che i suoi assassini, prima di attuare il loro piano, abbiano registrato un filmato in cui dichiarano di essere dei “martiri” dell’Islam rischia di rendere inarrestabile uno degli automatismi ormai ubiqui che confondono i piani e impediscono di leggere con chiarezza i termini essenziali della questione, rendendoci più fragili. Mi riferisco in particolare alle spiegazioni (che spesso si trasformano in velate giustificazioni, se non in assoluzioni belle e buone) che sovrappongono cause religiose, storiche, geopolitiche, sociali ed economiche, attribuendone la responsabilità all’Occidente. Ora, scriveva Alberto Arbasino, così come io non mi vanto di aver dipinto la cappella Sistina, perché la cappella Sistina, invece, l’ha dipinta Michelangelo, così non c’è alcuna ragione di sentirsi in colpa se singoli europei da duecento anni trattano le parti militarmente e politicamente deboli del pianeta come la loro personale grotta di Alì Babà: sfruttando, affamando e uccidendo. Gli industriali senza scrupoli che fabbricano e vendono armi ad eserciti tribali che arruolano bambini; i politici che non censurano, ma avallano o addirittura favoriscono queste pratiche; i banchieri dalla faccia di bronzo che supportano finanziariamente tali operazioni sono responsabili delle loro azioni e non possono autoassolversi scaricando responsabilità individuali su presunte collettività o “sistemi” culturali. Ma il vero punto debole di queste spiegazioni religiose, politiche o sociali è che sono “infinite”. Potrebbero servire trent’anni (ma forse cinquanta, forse cento...) di ricerche per stabilire una volta per tutte la ragione sociologica per la quale un terrorista si è fatto saltare in aria, uccidendo venti persone. Lo stesso se si vuole determinarne il fondamento economico, psicologico o storico. Non solo: le spiegazioni “infinite”, oltre a non darci praticamente mai una risposta, rallentano le nostre reazioni e raffreddano la nostra indignazione, perché spostano sul piano della ricerca scientifica e della riflessione intellettuale un atto che distrugge vite, traumatizza la società e che dunque dovrebbe generare passioni ben lontane dalla pacata riflessione dello storico della cultura. Noi vogliamo che l’Occidente reagisca come un’entità violata, non come un’accademia di fronte ad un rompicapo socio-economico. Le accademie hanno altri obiettivi e soprattutto altri tempi; nel lungo periodo, nessuno nega che facciano la differenza, ma a breve termine affidarsi a loro produce più danni che benefici. Io vorrei continuare a vivere in uno stato laico e tollerante - in una società aperta, non in uno stato confessionale - e non credo che il modo giusto di agire per garantire tale futuro sia puntare tutto sulle università. Servono risposte “di governo” tempestive ed efficaci. Risposte possibili solo se i cittadini percepiranno gli attentati terroristici come il tentativo di demolire per l’appunto il nostro scibbolet, la nostra “forma di vita”. La nostra Lebensform, direbbe Wittgenstein. Forma di vita: meglio evitare espressioni quali “stile di vita” o “modo di vivere” che fanno pensare a entità posticce che potrebbero essere rimosse senza conseguenze. Non  stiamo parlando di cravatte di seta da annodare con quattro o cinque movimenti né di tè alle cinque né di partite di calcetto una volta la settimana. Stiamo parlando di qualcosa che coincide con noi stessi. Non di qualcosa che abbiamo (abbiamo abitudini), ma di qualcosa che siamo. E cosa siamo? In cosa ci identifichiamo?
Prima di rispondere, torniamo all’assassinio di padre Hamel, ponendoci una domanda che pochi si sono fatti: e se il nostro processo di identificazione fosse manipolato dai terroristi proprio attraverso i loro atti? Se esso fosse, cioè, imposto da loro? Uccidere un prete nella sua chiesa è un atto aberrante, ma è anche un anacronismo, un gesto che “stona” con il nostro tempo, al quale non appartiene. Non ce n’è abbastanza per sospettare che l’assassinio di padre Hamel sia stato l’effetto di un’operazione studiata a tavolino per spingere noi occidentali a identificarci con un’ideologia che ci indebolisce o che ci rappresenta solo in parte?
Lasciamo momentaneamente in sospeso questa domanda, ed evochiamo invece le risposte che si ascoltano più di frequente quando si va a caccia dell’ “identità occidentale”.
Molti sostengono che la “forma di vita” occidentale sia la libertà. Fare le ore piccole, andare in spiaggia in bikini e ogni tanto, in compagnia di amici cari e fidati, ubriacarsi per risvegliarsi il giorno dopo con il mal di testa. Andare a letto con chi ci pare senza per questo doversi, prima, sposare. Scrivere poesie “maledette”. Comportarsi in modo trasgressivo, immorale o amorale senza finire in galera e beccando al massimo qualche occhiataccia dai vicini di casa: questo è (sarebbe) l’Occidente.
Tutto sbagliato: la “forma di vita” occidentale è il Cristianesimo, risponderà invece chi vuole sottolineare l’opposizione religiosa fra Cristianesimo e Islam. In fondo, cosa è accaduto in Francia? Dei fanatici musulmani hanno ucciso un prete cristiano. Più ovvio di così...
Risposte, entrambe, chiare, che però implicano una semplificazione che le rende vulnerabili.
Chi vede l’essenza dell’Occidente nella libertà può essere facilmente smentito: esistono persone che non festeggiano gli scatti di carriera con l’alcol, che hanno una vita sessuale morigerata e uno stile di vita piccolo-borghese.
Un’Europa cristiana, allora? Con il tasso di secolarizzazione alle stelle e il generale scetticismo verso la Chiesa che spesso, sulla scia dei reati di cui si sono macchiati alcuni prelati, diventa aperta ostilità? Senza contare che il numero crescente di scettici, agnostici e atei non è una conseguenza dei tempi che corrono, come vorrebbero le vecchie zie, ma l’effetto finale di un processo essenziale, quello del passaggio dal mito alla ragione e dalla religione alla scienza, innescato dai filosofi ionici venticinque secoli fa. L’Europa sta dimostrando con i fatti, con le chiese deserte e la crisi delle vocazioni, che è figlia più della filosofia greca che del Vangelo. Non spetta a me dire se questo sia un bene o un male, ma è così. E se tentassimo di riattivare in modo opportunistico il nostro residuale cristianesimo solo per opporci al fanatismo religioso di matrice islamica saremmo destinati alla sconfitta: la fede non nasce a comando e le religioni non si lasciano strumentalizzare senza vendicarsi.
La “forma di vita” occidentale, allora, sarebbe basata sulla scienza? Anche qui, meglio non dare risposte affrettate. L’Occidente non è solo il teorema di Pitagora e il cannocchiale di Galileo: è anche un insieme di favole, di narrazioni fondanti e di immagini parlanti, molte delle quali, indubbiamente, sono di origine cristiana. Tale origine non è inattiva; ma bisogna precisare che la forza dell’Occidente non sta nel Cristianesimo puro e semplice. La forza dell’Occidente risiede, semmai, anche in quella sezione ridotta del Cristianesimo che è stato possibile trasformare in una forma dolce di umanesimo e che per tale motivo è stata accolta dalle nostre costituzioni e dal nostro diritto, assieme ad altre tradizioni con le quali ha imparato a convivere: quella liberale e quella del solidarismo socialista, tanto per fare due esempi.
Ecco, quasi senza accorgercene abbiamo trovato il nostro “scibbolet”, la nostra “forma di vita”. Ciò che ci distingue è il diritto. E il modo giusto di reagire agli attentati terroristici è dire che si tratta di criminali, di criminali comuni. Uccidono, mettono bombe, incitano all’eversione. Violano il diritto, cioè la forma giuridica nella quale abbiamo liberamente deciso di entrare e che abbiamo liberamente deciso di essere. Dire che i terroristi sono criminali comuni non significa accusarli di meno, significa accusarli di più. Significa accusarli subito. Significa dire che hanno violato quanto di più profondo abbiamo, la nostra “forma di vita”. Ed esattamente come è normale che i sociologi studino la frequenza dei furti nelle varie categorie sociali e nelle diverse regioni italiane, senza per questo dimenticare che coloro che commettono tali furti sono dei ladri, così si potrà, nelle università, nelle redazioni dei giornali, nelle case editrici  analizzare doverosamente le “cause” degli attentati terroristici: ma guai a dimenticare che si tratta di criminali. E guai a dimenticare che nel diritto precipitano le tradizioni più essenziali dell’Occidente: il culto della razionalità e contemporaneamente la diffidenza verso l’applicazione totalitaria di questa stessa razionalità; l’umanesimo cristiano privato delle sue componenti dogmatiche; il solidarismo socialista; la tradizione del liberalismo e del rispetto delle libertà individuali.
A questo punto l’articolo potrebbe terminare, non fosse che resta in ballo un sospetto che ogni liberale dovrebbe sforzarsi di fugare. Il problema è che il diritto viene visto, dalla tradizione liberale, come una serie di muri, di limiti alla libertà individuale o, nella più benevola delle ipotesi, come dei binari preferenziali sui quali muoversi. L’atteggiamento alternativo, quello di matrice romantica che vede il diritto come sedimentazione delle tradizioni giuridiche di un popolo e come il correlativo giuridico della sua cultura in senso lato viene visto dai liberali come ipocrita, pericoloso e persino come un’anticipazione dello “stato etico”, vale a dire dello stato che ficca il naso dove non dovrebbe, per esempio nel campo della morale. Posizioni teoriche, queste dei liberali, rispettabili e rispettate, ma che in certi momenti diventano problematiche. Se infatti vedessimo il diritto come qualcosa che è fuori di noi, e che magari temiamo e che al limite ci opprime, ci ritroveremmo nella stessa condizione di un immigrato che non avendo il nostro passato sente il sistema della Costituzione e dei codici come una gabbia. Saremmo entrambi stranieri rispetto al diritto e non c’è niente di peggio, quando si combatte per difendere qualcosa di essenziale, del ritrovarsi a dividere la stessa condizione di oppressi di chi ci aggredisce.