mercoledì 18 gennaio 2012



Fabrizio Ottaviani

 La testata di Zidane, l'ordalia e l'onore perduto dell'Italia

Prefazione



Nato come instant book, e pubblicato solo adesso "in epoca non sospetta" grazie al servizio di auto edizione Amazon, La testata di Zidane e l'onore perduto dell'Italia è un dialogo ispirato al Sogno di d'Alambert, uno scritto del 1769 in cui il philosophe Denis Diderot metteva in bocca al suo sodale, addormentatosi per colpa di una specie di influenza in casa della sua amante e dunque pressoché semisvenuto per la febbre, tesi materialistiche molto scomode. Diderot passerà in seguito alcuni mesi nella torre-prigione di Vincennes per aver sostenuto, fra l'altro, che se Dio avesse voluto fabbricare un uomo alla maniera di Descartes, avrebbe fatto bene a mettergli l'anima sulla punta delle dita, perché è da lì - dai sensi, non dall'anima - che provengono tutte le conoscenze. Prima di andare avanti con questa prefazione, però, vorrei avvertire il lettore che non fosse interessato né alla celebre testata di Zidane, né all'onore della Patria, che questo scritto introduttivo si conclude con l'esposizione di una diagnosi, con l'individuazione di una tabe prettamente italiana, e che dunque forse vale la pena continuare a leggere, perché alla fine lo sforzo sarà premiato.
Sarà il caso, per cominciare, di dire che l'idea di scrivere un dialogo sul chiacchieratissimo coup de boule nasce all'incrocio fra due spinte: la lugubre fascinazione per il gesto di Zidane, e il fastidio per la mancata reazione degli italiani di fronte a tale gesto. Fascinazione, certo: perché anche se la testata di Zidane, a differenza, mettiamo, del "naufragio" di Nobile, e più recentemente della morte in un tunnel di Lady Diana (eventi mediatici che assumono le dimensioni del mito: cioè di eventi infinitamente interpretabili e contemporaneamente univoci, quasi paradigmatici) la testata di Zidane possiede la capacità di concentrare in un punto una quantità di problemi - nazionali, sociali, psicologici - e dunque, inevitabilmente, affascina. La successiva operazione "mafiosa" dei francesi, che furono bravissimi a trasformare il colpevole in vittima, mostrando un'abilità nel mistificare superiore a quella rivelata, negli anni precedenti, dalle vicende di molti politici italiani; la rivelazione" della micragnosità dei francesi mi sembrò talmente spaventosa che mi sarei aspettato da parte italiana una reazione lucida e spietata. Invece, come noto, non vi fu niente del genere. Solo una minutaglia di piccole frasi ironiche, comparse sui giornali o proferite dai giornalisti televisivi, frasi a volte controproducenti. Sembrava che la vittoria avesse reso inutile il giudizio; ma perché ciò fosse ammissibile era necessario che la vittoria fosse essa stessa un giudizio. Inevitabile fu, allora, pensare all'ordalia, dove la sconfitta è ipso facto una condanna e il trionfo rende inutile e sospetto indagare le ragioni della vittoria. Gli italiani, era evidente, non avevano nessuna voglia di difendere Materazzi. Ma al di fuori del sistema germanico dell'ordalia, il fatto di aver vinto li esimeva dal proteggere la vittoria da ogni attacco mediatico? Lo scandalo di una mancata elaborazione della felicità (perché  c'è un'elaborazione della felicità, così come ce n'è una del lutto) bastò a convincermi che fosse opportuno gettarsi nel terribile ginepraio del post-sbornia da titolo mondiale. Ma non volli farlo da solo: e poiché avevo la fortuna di annoverare, fra i miei amici più cari, persone che al gusto per la speculazione sociologica più sofisticata univano la passione per il calcio, non esitai ad invitarli, allettandoli con la prospettiva di una cena innaffiata da un rosso importante. Quanto alla padrona di casa, Silvia Di Vona, avrebbe partecipato alla cena e alla prima fase della discussione; poi, verso le dieci e mezza, sarebbe partita da Roma per un breve e opportuno viaggio di lavoro. I tre esperti di calcio erano Massimo Megale, Vincenzo Tersigni e Francesco Sganga: tutti juventini, sia questo detto per ulteriori speculazioni e dietrologie. Quattro nastri da novanta, di quelli usati per registrare le lezioni universitarie, non attendevano che di essere incisi.
La discussione fu lunga, complessa, profonda e ricca di colpi di scena. Ben presto ci accorgemmo che la testata di Zidane non riguardava che superficialmente una partita di pallone. In realtà, innervava la storia di due nazioni, la Francia e l'Europa, e gettava propaggini sui temi più vari, fra cui ovviamente il rapporto fra il Primo e il Secondo Mondo.
Quando, estenuati, ci demmo la buonanotte, saranno state le tre del mattino. Un paio di giorni dopo, mi trasferii nella villa di campagna dei miei (quella settimana in viaggio), dove Silvia mi raggiunse. Lì sbobinai i nastri e poi scrissi il dialogo. In fretta: bisognava battere il ferro finchè era caldo o, per essere meno metaforici, bisognava completare l'opera entro la fine di luglio, cioè prima che le redazioni delle case editrici chiudessero per le vacanze estive. Ci misi circa una settimana.
I tre francesi del dialogo, Jean, Marcel e Annette, vivono a Roma da molti anni e ormai sono mezzo romani, per cui si trovano nella posizione migliore per discutere del coup de boule. I tre non potevano che essere uno psichiatra, un filosofo e un giurista: mi sembrava che queste professioni inquadrassero un piano storico e sociologico meglio che se mi fossi servito direttamente di un sociologo. Ma voglio ricordare che Vincenzo Tersigni è laureato in sociologia (Sganga, invece, è un acuto critico letterario, mentre Massimo Megale è - e speriamo che la definizione gli piaccia - un umanista esperto di economia).
Visto che il lavoro svolto appariva buono, avrei potuto telefonare alle singole case editrici offrendo un testo che trattava di una questione della quale parlava tutta l'Europa; ma il tempo, come detto, era tiranno, sicché preferii inviare il dialoghetto ai più importanti agenti letterari, immaginando che mi avrebbero fatto guadagnare tempo. In effetti, mentre passeggiavo in bicicletta lungo la strada che va da Arpino a Fontana Liri, squillò il cellulare. Era Piergiorgio Nicolazzini, l'agente di Faletti e di altri importanti scrittori italiani. La testata di Zidane gli era piaciuta, avrebbe chiamato lui le case editrici per cercare con urgenza un esito pubblicatorio.
La ricerca, come potete immaginare, non ebbe successo. Un libro che si sarebbe venduto in migliaia di copie a scatola chiusa (nello stesso arco di tempo, in Francia, uscirono tre libri sul coup de boule, uno dei quali firmato nientemeno che da Philippe Toussaint, un autore bravissimo che meritava di vincere il Nobel al posto di Le Clézio) rimase inedito.
Intendiamoci, il dialogo non è perfetto. Rileggendolo a distanza di sei anni, sei anni durante i quali ho curato tanti romanzi come editor da aver sviluppato una sensibilità per la scrittura che prima certamente non avevo allo steso grado, riconosco che La testata di Zidane è, a tratti, farraginoso, e che le opinioni dei personaggi non sono facilmente individuabili, anche perché si vanno formando e deformando attraverso la discussione. Ma è un dialogo che funziona, e che nelle librerie sarebbe stato acquistato anche solo per il titolo che porta. Nicolazzini, vale a dire uno degli editor più stimati e importanti, al quale poi, su suggerimento di Vincent Raynaud e di Alberto Garlini, avrei affidato La gallina, cioè il mio primo romanzo, tentò senza successo di suggerirne la pubblicazione a più di una casa editrice, ottenendo immancabilmente una risposta negativa. E anche ammesso che in Italia gli agenti contino poco, e spesso nulla (negli USA non sarebbe mai potuto accadere che un'opera rappresentata da un agente importante non fosse pubblicata) bisogna riconoscere più semplicemente che era estate, e che le redazioni delle case editrici stavano chiudendo. Approfittare di una fase dell'anno abbandonata da tutti, cogliere l'occasione di un dialoghetto che si sarebbe potuto vendere in migliaia di copie perché ovunque si parlava solo della testata e nelle librerie non c'era niente che ne parlasse... Be', questo per i funzionari editoriali italiani era davvero chiedere troppo.
E' arrivato, finalmente, il momento di distillare la morale della storia. Ebbene, si ha, a volte, l'impressione che la buona letteratura sia difficile da promuovere per l'avidità degli editori, i quali preferiscono pubblicare opere dozzinali pur di fare cassa. E questo è vero, e in effetti accade in tutto il mondo. Ovunque si preferisce mettere in circolazione merce che permetta di far soldi, e in ciò non c'è proprio niente di male: ammesso, naturalmente, che tali guadagni non danneggino nessuno e che, nella peggiore delle ipotesi, lascino l'umanità nella condizione in cui l'hanno trovata, e non la rendano più stupida e più cattiva. Eppure, altrove, quando compare un'opera di valore che, in più, permette lauti arricchimenti, si festeggia. In Italia no. Per due ragioni: la mancanza di professionalità, e il timore che, se per una volta la moneta buona scaccia la cattiva, tale scandalo possa ripetersi. L'Italia, dunque, fa eccezione. Nel nostro Paese, il filisteismo è una pulsione più potente della rapacità. Imparate a memoria questa sentenza, assaporatela  e coglietene la terribile portata.

Fabrizio Ottaviani

Nota. La testata di Zidane, l'ordalia e l'onore perduto dell'Italia è reperibile in formato elettronico al seguente indirizzo al prezzo di 3,30 euro:

http://www.amazon.it/testata-lordalia-perduto-dellItalia-ebook/dp/B006NZE5MU

Può essere letto su kindle, o anche sul computer, scaricando l'apposito il programma. Ecco l'incipit:

Fabrizio Ottaviani
 

La testata di Zidane, l'ordalia e l'onore perduto dell'Italia
Parte prima
Un caso di sonnambulismo indotto
***


- Grazie per essere venuto così in fretta, Jean. È successo di nuovo. Dall’ultima crisi sono passati vent’anni. Avevo dimenticato persino cosa si dovesse fare in questi casi!
- Calmati, non c’è ragione di preoccuparsi. Adesso gli somministro un calmante. Vedrai che tornerà normale.
- È facile, per te, mantenere l’autocontrollo. Sapessi quando gli ho sollevato la benda dagli occhi, e mi sono accorta che erano sbarrati! Per un istante ho temuto persino...
- Su, su... è solo una crisi di sonnambulismo. Dov’è l’insigne giurista?
- Nel suo studio, ancora seduto alla scrivania.
- Sempre immobile?
- Catalettico! Però ogni tanto parla. Alterna discorsi interi, anche molto lunghi e cervellotici, a brevi frasi smozzicate e prive di senso.
- Già. Come accade nel quaranta virgola sette per cento dei casi, almeno secondo l’ultima edizione del manuale di psichiatria.
- Quando si mette la benda sugli occhi, comincia a parlare. E quando la toglie tace di colpo. Eccolo lì. Sembra una statua di sale. Non fa paura?
- A me no. Ci sono abituato. E questa bottiglia?
- Lasciamo perdere. Abbiamo avuto una discussione che nel giro di un’ora si è trasformata in un alterco. Quando ha visto che non avevo intenzione di dargli ragione mi ha mandata al diavolo e si è rinchiuso nel suo studio. Prima però ha preso una bottiglia di porto. Guarda, ne ha bevuto più della metà. Lui che non beve mai.
- Non è vero che non beve mai. Non fingere, Annette. Tuo marito non beve quasi mai. O meglio beve solo quando tu lo esasperi.
- Non vorremo metterci a litigare anche noi, spero. Poggia pure la borsa sulla scrivania. Ecco l’ovatta che mi hai chiesto.
- Grazie. Così, una bella iniezione. Dovrebbe fare effetto in pochi minuti. Forse è stato l’alcol a scatenare la crisi.
- Ma no, non credo.
- E perché?
- Perché sono convinta che è stata colpa mia. Non dovevo irritarlo con le mie teorie.
- Ma davvero? Hai delle teorie?
- Non fare lo spiritoso, non è il momento. Voi medici avete il vizio di trattare i filosofi come se fossero dei bambini.
- Non faccio lo spiritoso, credimi. È un dovere professionale stabilire ciò che potrebbe aver scatenato in tuo marito una crisi di sonnambulismo dopo vent’anni durante i quali sembrava essere guarito. Forza, sputa il rospo. Di cosa stavate discutendo?
- Della testata di Zidane.
- Come hai detto?
- Hai capito bene.
- Deve essere un’epidemia. Ieri, dopo la lezione all’università, sono passato in sala professori a salutare i colleghi. Non ci crederai: non si parlava d’altro. Sono scappato subito con una scusa, ma poi...
- Ma poi anche tu hai cominciato a lambiccarti.
- Proprio così. Anzi, se proprio vuoi sapere la verità, ti dirò che ho alcune idee a riguardo che forse meritano di essere ascoltate. Ma adesso pensiamo a Marcel. Allora, che cosa gli hai detto per spingerlo a ingurgitare mezzo litro di porto?

2011 by Fabrizio Ottaviani
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venerdì 13 gennaio 2012

Radio attività

Lunedì 16, alle ore 17,30, Felice Cimatti (che oltre ad essere uno dei conduttori di Fahrenheit è anche filosofo del linguaggio e zoosemiologo) ha intervistato l'autore della Gallina. Su Radiorai  3. Ecco il link all'intervista:

http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t=fahrenheit&p=fahrenheit&d=&u=http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/un_libro/archivio_2012/audio/libro2012_01_16.ram



giovedì 5 gennaio 2012

Intimamente eleganti



Da un ipotetico, ancora da scrivere, anti-bierciano Angel's Dictionary. CONSUMISMO: s.m. La nobile arte, padroneggiata dalle persone intimamente eleganti, di usare le cose che già si posseggono fino a consumarle.

mercoledì 4 gennaio 2012

Chissà forse vincente




L'unità, martedì 3 gennaio 2012.


Far fuori la gallina... La missione impossibile di Ottaviani.
di Angelo Guglielmi

Con La gallina, Ottaviani ingaggia una sfida disperata. Chissà, forse vincente. Introduce di soppiatto in un ménage apparentemente tranquillo (in un appartamento alto borghese, dove marito e moglie vivono con maggiordomo e cameriera) una battagliera gallina che si aggira impertinente per la casa, sporcando e distruggendo tutto ciò che sfiora.
Il maggiordomo, rispettoso e pavido, non trova la decisione (forse non ha il coraggio) di afferrare il volatile e tantomeno di ucciderlo, tanto che al ritorno della padrona, che ha molta considerazione di lui, giustifica la presenza della gallina difendendosi con una scusa qualunque, promettendo di risolvere al più presto l'inconveniente. Passano i giorni e la gallina continua a imperversare e fare danni per l'appartamento. Tra i danneggiamenti non c'è solo il prezioso vaso cinese che la gallina, nei suoi movimenti incontrollati, ha fatto cadere, o i tappeti e i divani che ha insozzato con i suoi escrementi, ma più ancora i rapporti tra la padrona e il padrone, già silenziosamente compromessi e ora scopertamente messi in mostra.
Tra il marito (che non sopporta il maggiordomo e gli preferisce la cameriera), la moglie (che odia la cameriera), il maggiordomo e la cameriera (nemici l'uno all'altro) esplode una rissa non solo psicologica che ha per oggetto l'urgenza di liberarsi della gallina; nonché l'ordine perentorio al maggiordomo, e in seconda istanza alla cameriera, di portare in porto l'impresa.
Ordine inutile, che continuando ad essere inevaso trasporta lo smarrimento e la tensione, intanto pericolosamente ingigantitesi, fuori, tra gli amici e colleghi di lavoro dei due coniugi, diventando un saporito pettegolezzo pubblico fino al punto di risolversi con la degradazione della moglie (che perde la responsabilità della società di cui è amministratore delegato) e il licenziamento del marito che, stupefatto per il provvedimento patito, attraversando la strada viene investito da una macchina e muore.
Dunque Ottaviani sceglie lo strumento del grottesco, rinforzato da punte di noir, per operare quella distruzione o meglio smontaggio della realtà che oggi (e non da oggi) non si riflette più nella sua apparenza. E' un'operazione cui ricorrono gli scrittori dai tempi di Mallarmé o forse di Baudelaire, che per primi hanno avvertito l'impossibilità di cogliere il reale attraverso la rappresentazione (come fino ad allora era accaduto) e la necessità di rompere gli schemi logici che tengono in prigione le cose, e di disarticolarle dissotterrandone il senso. Operazione inevitabilmente rischiosa, esposta a facili fallimenti e velleitarismi irrisolti, ma quasi obbligatoria per lo scrittore che voglia porre domande al mondo pur sapendo di non poterne ricevere risposte. Porre domande significa attivare un circuito vitale e fomentare energie che coinvolgono, insieme all'autore, il lettore.
Ottaviani affronta la salita dalla parte più ripida percorrendola come fosse una discesa, mettendo il lettore sempre in sospetto sulla riuscita finché, grazie all'aiuto di un linguaggio ficcante e scivoloso, sembra conquistare la vetta. Riuscirà a impiantarvi la bandiera?