Il
mucchio selvaggio al tempo del coronavirus
Al
tempo del coronavirus, il gioco delle parti e la topologia “Bene vs
Male” è mutuato dalla retorica puritana. Da una parte la ragione
(medici, scienziati, virologi, epidemiologi), dall’altra la
farragine delle persone irrazionali, farragine la cui creazione per
accumulo (si tratta di un mucchio) svela la matrice etnocentrica se
non xenofoba degli “illuminati” che la pongono in essere (li
chiamerò così, con tanto di virgolette, per distinguerli dagli
illuministi del Settecento che erano più simpatici, intelligenti e
sensati). Il mucchio selvaggio è costituito da coloro che dividono
una visione magica o mistica della natura; dai nostri primitivi, las
indias de para aqui; dagli analfabeti scientifici; da chi pur non
essendo un analfabeta scientifico odia la scienza, eccetera.
Come
detto, una simile self-flattening
divisione
dell’umanità in due parti, gli illuminati da una parte, gli
accecati dall’altra, è un’opposizione di matrice religiosa:
calvinista e precisamente puritana. Sento anche il bisogno di
aggiungere una seconda osservazione: mi dispiace per le idées
reçues degli
illuminati, per il loro cosmo diadico e gerarchico, ma popoli non
solo al di qua della rivoluzione scientifica, ma senza scrittura e
che vivono allo stadio paleolitico attuano forme di controllo delle
epidemie analoghe a quelle suggerite dall’OMS. Isolamento,
distanziamento sociale, rarefazione dei rapporti fra le persone. Ciò
accade perché in questo caso i primitivi si dimostrano lucidamente
razionali? No: semplicemente sono più accorti
e
più buoni
di
noi.
Bene,
stravolgerò questo gioco delle parti. Ipotizzerò che oggi, con il
coronavirus tra i piedi, i comportamenti lesivi della propria e
dell’altrui salute si basano su una visione (aberrante, oltre che
epistemologicamente fasulla e scientificamente paralizzante) tipica
degli albori della Rivoluzione scientifica.
Prima,
però, vediamo come ragionano gli illuminati. Chiusa la strada – da
loro sempre privilegiata, in questo caso purtroppo impervia – del
radicalismo assoluto e apodittico (del tipo: il coronavirus è una
peste che contagia a distanza e uccide il 100% dei contagiati e chi
non lo capisce è cieco; oppure: il coronavirus è una normale
influenza che non deve destare troppe preoccupazioni e chi non lo
capisce è sordo), è giocoforza sviluppare una doppia censura: verso
chi si lascia prendere dal panico e trema come una foglia se solo lo
sfiora un passante; e verso chi ignora totalmente il pericolo.
I
primi, gli “impanicati”, sarebbero “primitivi”. Uso
condizionale e virgolette perché dare del primitivo a un uomo che
non sa leggere e scrivere è una mostruosità, ma gli illuminati non
hanno di questi scrupoli perché per loro gli unici uomini veri sono
quelli “evoluti”, agli altri mancherebbe qualcosa, sarebbero dei
minus
habens.
I terrorizzati dal virus sarebbero “primitivi” perché esagerano
in un senso, lasciando il libero corso a paure che saranno definite,
con compiacimento, ancestrali, ataviche, animali e così via,
mobilitando il corrusco vocabolario di aggettivi che gli illuminati
infliggono a chiunque osi sostenere che ci sono al mondo di più cose
di quante ve ne siano nelle loro matematiche.
E i
secondi? Ebbene, sono “primitivi” anche coloro che si danno al
fatalismo, come tanti don Ferrante che muoiono di peste perché la
peste non è né sostanza né accidente. Fatalismo che peraltro non
desta la curiosità intellettuale degli illuminati e che dunque (e
anche questa negligenza è rivelatrice) non viene indagato, sebbene
forse alcune ipotesi (cupio
dissolvi,
thanatos
freudiano,
mancanza di speranze, gelo spirituale e morale, taedium
vitae)
potrebbero riservare qualche sorpresa.
Quale
strategia, a questo punto, raccomandano di seguire gli illuminati? Un
percorso intermedio fatto essenzialmente
di due cose: di prudenza
e
consapevolezza che con le epidemie siamo di fronte a fenomeni di tipo
probabilistico.
Cominciamo
con il concetto di probabilità.
La ragione per la quale la gente fuma, mangia male, guida in modo
pericoloso e, udite udite, nei giorni del coronavirus tocca il
pulsante per avere il verde pedonale al semaforo e poi si mette le
mani in bocca o si stropiccia gli occhi è che si tratta di azioni
che appartengono, direbbe Aristotele, al campo del “talvolta” o
del “per lo più”. Ci si può infettare, ma solo talvolta. Per lo
più ci si infetta, ma talvolta no. Bene, sapete che ruolo gioca il
calcolo della probabilità nelle pagine di Galileo o di Cartesio?
Nessuna. Entrambi imbastiscono una lettura dei fenomeni naturali che
passa solo attraverso la mathesis
universalis.
Ora, il campo delle matematiche è un campo in cui vale la logica
apodittica del vero e del falso. Un calcolo o è eseguito
correttamente, e allora è vero, o no, e allora è falso. La seconda
legge di Keplero o è vera o è falsa. Questo matematismo ristretto,
rilevabile nel famoso passo di Galileo del Saggiatore
in
cui si afferma che la natura è scritta a caratteri matematici, e chi
non la conosce non capisce niente della natura; e nel passo giovanile
del sogno di Cartesio in cui si suggerisce di ragionare con il metodo
dell’est et non, cioè con una logica binaria e poi in infinite
altre pagine (nelle Regulae
ad directionem Ingenii,
nel Discours
de la Méthode,
nelle lettere) condanna all’oscurità qualsiasi area del sapere in
cui la logica apodittica dell’est et non, del vero falso, non si
applica. Questo è il punto che mi interessa sottolineare. Già nella
seconda metà del Seicento, con Pascal e soprattutto con Leibniz, si
metterà mano a una matematica della probabilità, che però oggi nel
senso comune evoca immagini molto lontane dal laboratorio dello
scienziato: evoca, piuttosto, il tavolo verde della roulette
e
le carte da poker.
Per l’uomo della strada la scienza è apodittica o non è. In altre
parole, alcuni con l’epidemia in corso si sono comportati in modo
autolesionista perché l’immagine predominante che si ha della
scienza non contempla le leggi dei fenomeni probabilistici e anzi le
tratta alla stregua di pseudo-leggi, come aveva fatto Cartesio quando
nel Discours
aveva
equiparato il probabile al falso. L’uomo che tocca il pulsante del
semaforo e poi si mette il dito in bocca non è distratto: sta
applicando alla lettera l’epistemologia di Descartes e di Galileo.
E
adesso veniamo al secondo suggerimento offerto degli illuminati,
l’accortezza. A che titolo, in questo caso, parlano? A me sembra
che la saggezza pratica abbia poco a che vedere con la scienza e
molto con la prudenza, virtù che come tutte le virtù non appartiene
al campo del sapere ma al campo della morale. La prudenza, come le
altre virtù, per Aristotele è il medio fra due vizi. E allora,
perché non si riconosce il carattere efficace di questo tipo di
prudenza? Perché si tratta di una virtù morale (ripeto, non un
sapere: una virtù), che purtroppo a differenza del lumen
naturalis vantato
da Cartesio è distribuita nel genere umano in modo non uniforme e
con una difformità che non passa attraverso l’opposizione fra
cultura scientifica e cultura pre-scientifica (dividendo i popoli
evoluti dai popoli selvaggi) perché è interna a tutti i popoli.
Dimenticarlo costituisce una rapina epistemologica nei confronti
delle aree dell'azione umana cui appartengono le questioni qui
discusse: la morale e soprattutto la politica.