domenica 27 novembre 2011

La bilancia della tempestività





Di fronte ad un testo evidentemente datato, un regista teatrale ha poche possibilità. Può smorzare le parti che più hanno subito i rigori del tempo, e alzare di converso il volume ai brani meno centrali ma più attuali, sperando che alla fine la bilancia della tempestività non risulti troppo obliqua. E' la scelta "pietosa", quella che soccorre. Può tentare un'edizione filologica, quindi professorale e ad uso esclusivo degli accademici (opzione critico-museale). Oppure può tentare un'operazione ermeneuticamente avventurosa: può mettere in scena per l'appunto l'essenza ormai usurata del testo, il suo nucleo funzionale, e chiedersi chi potrebbe trovarlo accettabile, gradevole o persino appassionante. E' ciò che ha fatto Lavia per I masnadieri di Schiller al teatro India, a Roma. La scena è un profondo parallelepipedo con la base d'argilla, mentre le pareti sono ricoperte di graffiti nello stile di Basquiat. Gli attori, vestiti come hipster, impugnano spesso la chitarra, cantano da soli o in coro, si spostano assieme (come nei balletti televisivi) e quando recitano si muovono come personaggi di un musical sfacciatamente commerciale, per esempio, l'eterno Fantasma dell'opera. Non c'è dubbio: per Lavia il preromanticismo di Schiller, come pure l'altisonante retorica dello Sturm und Drang - didascalicamente richiamato nei graffiti, ovviamente a caratteri gotici - può attrarre solo gli "amici" della De Filippi: è, insomma, cascame, destinabile al massimo al pubblico più sprovveduto. Naturalmente questa operazione aggressiva è, propriamente, un'esecuzione capitale: Lavia vuole uccidere in scena I masnadieri. Purtroppo questa scelta (e si tratta di una scelta non solo legittima, ma proficua) pone un problema: quello della resa teatrale, e in particolare quello della mancata identificazione con le dramatis personae. Per scongiurare la noia, che sarebbe l'immediata conseguenza di questa mancata identificazione, Lavia ha solo due strumenti. Il primo è il periodico ricorso a degli "stalli", in cui una voce fuori campo riporta il tono della pièce al "serio". Il secondo, è la semplicità della mente degli spettatori, i quali nelle due ore dei Masnadieri non hanno esitato ad applaudire a scena aperta proprio i momenti in cui le pulsioni dissacratorie del regista raggiungevano il culmine.

giovedì 10 novembre 2011

Io, invece


Ieri pomeriggio, alle 18,30, presentazione di due romanzi in contemporanea. Decido di accettare, l'invito viene da un'amica. Gli autori stabiliscono di parlare l'uno del libro dell'altro, andrebbe tutto bene ma l'autore n.1 parla per circa un quarto d'ora del romanzo dell'autore n. 2, mentre l'autore n. 2 proprio non ce la fa a ricambiare. A dire il vero ci prova, ce la mette tutta, ma il compito è superiore alle sue forze. E' anche poeta, è troppo self-centered, è inevitabile: per ogni frase dedicata all'altro ce ne sono tre che parlano di sé, del suo romanzo o della sua vita. Si imbarca in una laudatio temporis acti che non finisce più. Ricorda con nostalgia gli anni '60, ha il mito della Vita agra di Bianciardi: quando tutti erano più buoni e poveri e puliti e ancora non avevano sigillato Piazza Vittorio sotto alcune tonnellate di travertino (dimenticando con tutta evidenza che la Vita agra raffigura gli anni del boom economico come un inferno). Biasima anche i radical chic che trangugiano aperitivi al Pigneto, il quartiere amato da Pasolini, e quasi si commuove al ricordo delle poverissime borgate romane di una volta.
L'altro romanziere è leggermente irritato dal fatto che il tempo dedicato al suo volume è stato decisamente inferiore, ma annuisce: in fondo anche il suo libro parla di un quartiere popolare, San Giovanni, e in particolare di un casermone della Cooperativa Tranvieri, cui corre grata la memoria.
Quando vado via, mi avvicino allo scrittore della cooperativa tranvieri e gli dico che leggerò volentieri il romanzo. E anche se temo che nel mio appartamento ci siano troppi quadri per darmi delle arie lumpen, aggiungo che io, a San Giovanni, ci abito. Lui mi sorride e mi risponde con la bonarietà di chi ti allunga una coltellata: "Ma che bello, io invece abito a Via dei Serpenti." Mi congratulo, poi sorrido (solo a me stesso) della mia ingenuità, e mi guardo attorno: siamo praticamente appollaiati sopra Fontana di Trevi, sulla terrazza di un albergo. Potremmo gettare la monetina da quassù ed uccidere un turista giapponese, non se ne accorgerebbe nessuno. La sobrietà è una gran cosa, ma meglio ammirarla da una postazione differente. Più aquilina. Sì, forse abbiamo avuto un passato parco. Ed è giusto abbandonarsi alla nostalgia. Ma non bisogna esagerare.
Saluto anche l'altro scrittore, ma stavolta da lontano. Che la sua vita agra si svolga, attualmente, ai Parioli?