venerdì 12 dicembre 2014

Da quale incendio

Giordano di Andrea Caterini, edito da Fazi, ha una “carrozzeria” e un “motore”. La “carrozzeria” è naturalistica: un operaio dipendente, un bravo fabbro, contro il parere dei congiunti si licenzia e apre un’impresa. Il fallimento dell’operazione trascina il protagonista nel baratro. Quanto al “motore”, che costituisce la parte più notevole del romanzo, e che meriterebbe un discorso a parte, è un gioco di spettri costituto dai ricordi di Giordano, dall’impossibilità di elaborare il suo senso di colpa, da una disperazione senza limiti e dunque potenzialmente ingestibile perché immedicabile.
Nella presentazione romana Arnaldo Colasanti ha individuato subito l’essenza di Giordano, da lui considerato un romanzo della “residualità”. Colasanti ha poi esteso tale caratteristica all’uomo contemporaneo nella sua totalità, trasformando un’intuizione accettabile in una tesi ipercritica. Io direi che non siamo tutti residui; e sostenere che il protagonista del romanzo di Caterini, nel suo garage, sia “uguale” a chi va alle presentazioni letterarie mi ricorda la risposta piccata che diede alla madre di François Maspero, reduce dal campo di concentramento, un’amica rimasta al calduccio, a Parigi, annoiata dai racconti del campo: “Cosa credi, anche noi abbiamo sofferto. Per tutto l’inverno abbiamo dovuto fare a meno dell’olio d’oliva.” Forse ha ragione Colasanti, forse siamo tutti residui; ma non tutti allo stesso grado, né allo stesso modo; sospetto inoltre che un contadino del medioevo o un operaio della Manchester di Engels non fosse meno residuale di un lavoratore di call center. La lettura che Colasanti ha offerto di Giordano è però piuttosto complessa, e bisognerà attendere una recensione scritta, che sola avrà valore di documento.
Mi soffermerò sulla struttura naturalistica, nella speranza che risolverne alcuni nodi possa aiutare a decifrare anche la “notte oscura” in cui precipita Giordano. Anzi, più che sulla struttura, sulla filigrana che nasconde. Caterini ha il diritto di respingere un’interpretazione che mette in primo piano ciò che in Giordano è solo accennato, e quindi automaticamente oscura o magari cancella altri passi del romanzo che pure ci sono, e che vanno contro quell’interpretazione. Diciamo che parto dal presupposto che i romanzi siano anche una strana forma di confessione, uno psicodramma dove si dice di più o di meno di ciò che si è disposti a dire, anche se nauralmente questa confessione ha per oggetto mondi possibili, non reali. E che i palinsesti, le filigrane e insomma il morboso corteo di ciò che cova sotto la cenere, per il fatto stesso di non manifestarsi merita l’attenzione del critico. Ma so benissimo che questo, che cioè i fenomeni siano sguardo sul nascosto, e non su ciò che appare, è un vecchio pregiudizio occidentale rilanciato da Freud. Fra l’altro non mi comporto così con qualsiasi romanzo, ma solo quando il gioco tra la superficie e il profondo, il centrale e il marginale costituisce una “virtù” del romanzo stesso. Ho letto e apprezzato Giordano con la testa, come mi accade sempre quando l’autore lavora con un’intelligenza anche teorica e critica sulle parole, ma il piacere del testo che sono riuscito ad estrarre dal romanzo di Caterini e il sottile, perverso turbamento  che scatena mi ha ricordato quel delitto raccontato da Jouhandeau in cui un marito fedifrago uccide la moglie a letto, mentre dorme, e quando questa si sveglia, perché sente le coltellate, lui le dice di stare tranquilla, di non agitarsi e che va tutto bene; proprio per continuare meglio ad ucciderla.
Giordano è un anti-romanzo, perché, come nella tragedia greca, inizia quando tutto è già accaduto, i Persiani hanno già vinto e bisogna solo ricostruire il senso di una sconfitta. Però Giordano è anche un romanzo ultra-cristiano. “Qui non c'è Greco o Giudeo, circonciso o non circonciso, barbaro, scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti" scrive Paolo di Tarso in una lettera ai Colossesi. Bene, andiamo oltre, si sarà detto Caterini: continuiamo a sottrarre parametri, ma, questa volta morali, fino a verificare se questo è un uomo anche se... Perché l’umanità è indocile, non rispetta le regole e si sottrae alle categorie allestite per mettere fuori gioco i subalterni; e il mondo è pieno di barbari felicemente protervi, di schiavi arroganti, di sciti che si danno arie da farisei. Proviamo, allora, a sottrarre non più tratti “secolari”, ma morali. Non togliamo all’uomo la ricchezza, la bellezza, il sapere: togliamogli piuttosto la dignità morale. Ecco allora nascere Giordano, il criminale familiare che fa quasi precipitare moglie e figlio nel baratro della povertà per (così sembra) il capriccio conformistico di far soldi. Ciò che segue è un teatro di spettri dove gli spettri sono i ricordi, cioè, in questo caso, il senso di colpa.
Intanto, è chiaro che Giordano non cade dalla posizione né troppo elevata, né troppo bassa, dalla quale normalmente cadono i protagonisti dei romanzi. Nella Poetica, Aristotele elenca alcuni intrecci che bisogna evitare, per esempio che un personaggio malvagio sia sconfitto, perché questo non genera paura e pietà, dunque nemmeno una catarsi. Va bene, invece, un personaggio “medio”, né troppo buono né troppo cattivo, che per un errore, un faux pas, meglio se dettato dalla scarsità di informazioni, precipita nella sventura. Giordano è questo personaggio “medio”? Direi di no. Credo che nessun romanziere abbia mai annichilito il suo protagonista allo stesso grado di quanto abbia fatto Andrea Caterini con il suo Giordano. Eroi completamente sconfitti non mancano nella storia della letteratura, ma si tratta sempre di sconfitte non presentano lo sconfitto come ignobile. Oppure, se ciò accade (dal Giobbe della Bibbia al Filottete omerico ai personaggi calunniati di Kafka), chi diventa repellente lo diventa per una decisione celeste imperscrutabile, il che produce un duplice effetto: rende inguaribile il male da cui è affetto l’eroe, e lo alleggerisce di una parte delle sue responsabilità (anche se di solito lo lascia in preda al senso di colpa, arcaicamente legato a qualsiasi tipo di fallimento; e poi, nel romanzo moderno, anche in balìa dei dubbi).
A me sembra utile avvicinarsi al tema del fallimento in Giordano tenendo conto del fatto che si può perdere più o meno nobilmente; inoltre dopo il crollo possono accadere cose diverse, aperture o involuzioni (al crack-up di Fitzgerald, espansivo e quasi avventuroso, Deleuze e Guattari contrappongono un crak-down regressivo).
E’, per esempio, un fallimento legittimo e non ignobile quello che  colpisce l’imprenditore che rischia a ragion veduta, e non come rischia chi giochi alla roulette. Giordano, invece, mette a repentaglio la famiglia senza criterio, in forma quasi criminale. Tutti lo sconsigliano di saltare in quella vasca di murene che è il mercato italiano. Lui si tuffa, e lì, dopo qualche bracciata, si lascia sbranare. Foster Wallace ha scritto che il prototipo del suicida è l’uomo che si butta da un palazzo in fiamme; ciò che ha alle spalle, il fuoco, è più doloroso e terrificante della morte che attende giù in strada. Questo spiega la sequenza operativa del suicidio, il “coraggio” del suicida.
Da quale incendio fugge Giordano?
Giordano non ha virtù morali. “Ama e stima tuo padre, se è un uomo buono; altrimenti, almeno, rispettalo” recita il proverbio. Ma Diego non rispetta suo padre. Giordano è pieno di passi in cui, più o meno direttamente, lo insulta, lo degrada.
Che Giordano sia un nulla morale lo rivela Sandro. Il fatto che Sandro ami Giordano è una cause célèbre, nel senso seicentesco di “effetto senza causa”; Giordano si dice: se Sandro mi ama, dovrò pur essere qualcosa di degno... Per essere d’accordo con l’ipotesi di Giordano, il lettore a sua volta deve credergli sulla parola, perché ogniqualvolta Giordano agisce in un contesto relazionale, si rivela l’inanità dei suoi sforzi. A parte la bravura nel suo mestiere, né Marilù né Diego né Sandro rilevano tratti positivi di Giordano, mentre invece è perfettamente visibile il teatro della crudeltà allestito attorno a lui da tutti, anche da chi vorrebbe sottrarlo a quel teatro.
Sempre durante la presentazione romana Aurelio Picca ha tenuto un discorso tempestoso, un’arringa da pubblico ministero contro il teatro della crudeltà che circonda Giordano. Picca (spero di non allontanarmi troppo dal suo pensiero, ma a questo punto non so dove finisca il suo e inizi il mio) ha diabolizzato e psicanalizzato il romanzo di Caterini, smontando l’interpretazione tranquillizzante che stava diffondendosi fra i lettori e inchiodando gli aguzzini del protagonista alla loro ipocrisia. E dunque: carogna la voce narrante, Diego, che tratta il padre come un minus habens; carogna l’amico Sandro, che forse va a letto con la moglie di Giordano e poi ha il coraggio di impancarsi a guaritore, ad accorato mistagogo; carogna la moglie, Marilù, che chiacchiera di notte al telefono ridacchiando con chissà chi mentre il marito muore di tristitia, e non gli stringe la mano nei giorni in cui è all’ospedale per un’ischemia; carogna, soprattutto, l’autore, che osa far uscire Giordano dal garage, luogo infero che condanna solo chi ve l’ha fatto precipitare; resurrezione illegittima, praticamente un’elemosina: perché mentre il crollo di Giordano è un fatto, la sua rinascita è delegata al piano simbolico dei sette santi dormienti, che invece appartiene alla mistica gratuità, a una notte dove tutte le vacche sono nere e dunque è nero anche il loro sangue versato. E a proposito del lieto fine sperato (o, per ricorrere al Lacan citato da Colasanti, allucinato) da Diego, esso è legato ad una frase di Sandro (“...come avete fatto a dimenticarvi di vostro figlio!”) che di nuovo espelle Giordano da se stesso, costringendolo a un salvataggio che fa leva non sull’amore di sé, ma sulla pietà paterna, sull’amore per il figlio. “Come avete fatto a dimenticarvi di vostro figlio” può essere inteso in molti modi, anche come un rappel à l’ordre, l’ingiunzione a tener conto non di se stessi, ma degli altri, che diventano gli unici legittimi beneficiari delle azioni di Giordano.
Picca ha visto giusto. Il suo finale (Giordano che muore nel garage) naturalmente non sarebbe stato possibile, se non altro perché nessun editore oggi stamperebbe un romanzo che è un viaggio al termine della notte senza regalare al lettore, nell’ultima pagina, una palingenesi. Però non c’è dubbio che le virtù di Giordano siano congetturali, il teatro della crudeltà in cui è immerso, invece, un fatto. L’elenco degli atti in cui questo teatro della crudeltà si sviluppa sono infiniti: Giordano è maltrattato dai clienti del garage, la moglie non gli stringe la mano quando sta per morire - tradimento ben più atroce di quello di Sandro, il suo migliore amico - ma soprattutto Sandro e Diego distruggono ogni possibilità di libera espansione di Giordano. Spinoza diceva che la cattiveria è questo: impedire a qualcuno di espandersi alla sua maniera. Kant, affermando che è immorale ignorare che il prossimo abbia (e sia legittimato a inseguire) fini diversi dai nostri, conferma la tesi di Spinoza. Qual è il fine di Giordano? Arricchirsi; ma questo arricchimento è negato in partenza da tutti, da tutti accolto con riserva mentale nella fase del successo (in cui, peraltro, tutti apprezzano Giordano solo come mezzo, non come fine) e considerato universalmente una follia dopo il crollo. Leggendo Giordano, si ha l’impressione che il cliente del garage che prova a parlare con lui - il “dottore” - sia, di fatto, l’unico “angelo” in un romanzo in cui circolano soprattutto esseri inquietanti, demoniaci. Demoniaco l’amico-nemico del cuore Sandro, demoniaca la moglie non-moglie Marilù. Quanto a Diego, è l’epicentro di un sistema domestico basato sull’ipocrisia. Da un punto di vista ideologico, Diego ripulisce denaro sporco.
Giordano, licenziandosi dal lavoro dipendente e mettendo su un’impresa, trasformandosi in partita I.V.A., sembra voler riconquistare una vita che ha perso l’elemento lineare dell’avventura, ed è ormai solo cerchio, tempo ciclico. Gli obiettivi veri, però, sono altri. Giordano, per cominciare, cerca di reagire alla sua nullità morale con il solo altro nulla immediatamente disponibile, a scopo di riscatto, nella nostra società: il denaro, il lavoro sociale ridotto a pura astrazione. Che sia così lo dimostra il fatto che appena Giordano riesce a fare un po’ di soldi, la sua grettezza cresce, non diminuisce (afferma che chi non può acquistare una Mercedes è un “morto di fame”, con la tipica spietatezza del parvenu). Il figlio, naturalmente, se ne avvede e inchioda il padre alla sua indegnità, in quello che è forse il passo più atroce del romanzo: Diego dimostra che la società che ha distrutto il sogno di emancipazione solo apparentemente economica di Giordano ha un volto che è identico a quello dello stesso Giordano, così com’era prima del crollo... Apparentemente: perché in realtà il desiderio di diventare imprenditore ha in vista un riscatto della dignità; per Giordano buttarsi nel mercato e metter su un’impresa è un modo per liberarsi dall’approvazione “a prescindere”, sospetta e in ultima istanza avvilente, di Sandro, e tentare di raggiungere un successo per il quale essere ammirato su basi concrete, non arbitrarie. “Quando il padre e il figlio smisero di rispettarsi, allora si inventò la pietà paterna e filiale”, si legge nel Tao Te Ching. Giordano è un uomo in fuga dall’agape domestica.
Resterebbe da dire che la sua resurrezione, per fortuna, è solo immaginata. Se Caterini ne avesse tratto una resurrezione reale, Diego avrebbe commesso il più grave dei crimini, la cancellazione morale del padre. Ma, sperata o reale che sia, deve essere chiaro che l’uscita di Giordano dal tunnel della disperazione, una rinascita che sembra diventare possibile solo nell’attimo in cui inizia l’elaborazione del senso di colpa, ha in vista la guarigione dal senso di colpa del figlio, non da quello del padre.

domenica 6 luglio 2014

Figlio mio!



Vi piace If? QUESTO E' L'ORIGINALE:

Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te
la perdono, e te ne fanno colpa.
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano,
tenendo però considerazione anche del loro dubbio.
Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare,
O essendo calunniato, non rispondere con calunnia,
O essendo odiato, non dare spazio all'odio,
Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio;

Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo,
Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.

Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio
senza mai far parola della tua perdita.
Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tenere duro quando in te non c'è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: "Tenete duro!"

Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtù,
O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,
Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo.
Se saprai riempire ogni inesorabile minuto
Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,
Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,
E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio!


 Però, però..... FUNZIONA ANCHE AL CONTRARIO: 

Se saprai abbandonarti quando tutti tengono salda la testa, 
e ti accusano di essere stato tu a dare l'esempio di solidità caratteriale,
se dubiterai di te stesso quando tutti credono in loro stessi 

e a tutti saprai perdonare tale boria,
se saprai reagire alle inutili attese anche a costo di ingannare, di odiare, 

e di assumere l'onere che si impone ai buoni e ai saggi,
se saprai tenere i piedi per terra, facendo di tale realismo la tua guida, 

se saprai sognare facendo del sogno il tuo scopo, 
e tremerai di fonte al successo e alla sconfitta, 
e resisterai alla tentazione di confondere questi due grandi arbitri della vita,
se impedirai che le tue verità siano distorte dai falsari 

e ridotte a trappole per gli sciocchi,
se vedendo in pezzi le cose per cui daresti la vita 

ti rifiuterai di chinarti e di raccoglierle 
e di ricostruirle con i tuoi logori arnesi, 
se eviterai di fare una manciata di tutte le tue vincite 
e rischiarle in una sola puntata e perderle, 
ed eviterai di ricominciare daccapo 
senza una parola di stizza o di rimpianto, 
se sarai così accorto da evitare di tendere il cuore e i nervi 
oltre ogni loro resistenza e farai attenzione 
a non aggrapparti ad essi quando in te non c'è più altra forza 
che quella di dire: resisti,
se il tuo tatto sarà così sensibile da spingerti 

a parlare in modo diverso con persone diverse, 
con i barboni e con i re,
se riuscirai ad essere toccato nel profondo, fino a soffrire, 

sia dai nemici più accaniti sia dagli amici più cari,
se ogni uomo conterà per te non alla stessa maniera, 

ma in base al suo merito, 
se riuscirai a vuotare il minuto che scorre 
di una cosa valsa sessanta secondi, 
potrai rinunciare anche alla terra con tutto quello che ci cresce sopra, 
e, ciò che più conta, vedrai il desiderio di diventare uomini 
come una scusabile velleità, 
che attira solo gli spiriti deboli, figlio mio!

lunedì 2 giugno 2014

Pellicola postmoderna


Alcuni romanzi non si limitano a raccontare una storia: vogliono essere la radiografia di un'epoca, trasmettere un’esperienza filosofica, analizzare la società o magari l'intera umanità. E a volte vogliono essere tutte queste cose assieme: sfogliando La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro (Ponte alle grazie, 509 pagg., 16,80 euro), per esempio, si ha l'impressione che il numero dei temi affrontati sia potenzialmente infinito; il che non vuol dire che questo romanzo ramificato e potente non abbia una struttura riassumibile: vi si narra infatti la vicenda terrena di un ingegnere di successo, Ivo Brandani.  Nato nell'immediato dopoguerra, background filosofico, politicamente orientato a sinistra, Ivo abbandona gli studi umanistici per intraprendere una carriera fulminante in una grande azienda, negli anni del botto economico. Espulso dai piani alti dei grattacieli per non essersi prestato ai giochi perversi dell’amministratore delegato, il protagonista del romanzo di Pecoraro vive altre esperienze professionali, fra cui una particolarmente catastrofica, da quasi-burocrate, in una Roma mai nominata se non con un beffardo eufemismo, "la Città di Dio”. Una Roma fatta solo di passaggi, di cunicoli; i corridoi dei ministeri rispecchiano la struttura delle fogne che un giorno, ostruendosi, seppelliscono l’urbe di fango.
Riuscito a sopravvivere anche a questo disastro, Ivo sta per terminare la sua carriera con una missione fin troppo allusiva: deve volare in Egitto per ricostruire artificialmente il reef di Sharm, visto che siamo nel 2015 e la barriera corallina è stata spazzata via dall'inquinamento. E’ proprio in aeroplano, incastrato fra i sedili claustrofobici della classe turistica, imbottito di Tavor, che l’ingegner Brandani rievoca gli episodi salienti della sua esistenza, abbandonandosi a un delirio rapsodico nel quale restano invischiati sessant'anni di storia italiana. Le sirene dell'industrialismo, l'oppio della contestazione, la nausea verso gli anni del riflusso; e poi la rotonda sul mare, il rapporto con le donne, gli aspetti snobistici o grotteschi di una élite psicologicamente fragile, se non inerme.
Ogni “fase” ha il suo nume tutelare: Conrad per i viaggi africani, Roma senza papa di Morselli per le pagine dedicate alla capitale. I tre puntini di sospensione, marchio di fabbrica di Céline, costellano il torrenziale monologo, mentre l’homo faber di Max Frisch, a braccetto con il console Firmin di Sotto il vulcano, sorvegliano la deriva morale e lo spettacolare tracollo del protagonista. Curiosamente, però, e a dispetto della pellicola postmoderna che ricopre le pagine di Pecoraro,  la collocazione ideologica dell’autore è chiara: il suo romanzo trasuda indignazione per il dissolvimento della civiltà occidentale. Il “passato” di Brandani è il cristianesimo che trapela dal lutto per la strage di Maometto II nella basilica di Santa Sofia, bizzarra ma non avulsa ossessione che apre il romanzo; ed è l'umanesimo dei suoi trascorsi filosofici e il marxismo dell'impegno politico, ideologie diverse eppure assimilabili, perché oggi vediamo che la loro funzione era comune: respingere il nulla post-umano, bestiale o elettronico, che attendeva l’umanità e che sta inghiottendo il pianeta.
"Aveva letto di recente che in Amazzonia nei fiumi melmosi vivono pesci gatto che non vedono niente, per via del limo. Allora sentono cosa c'è nell'acqua attraverso la pelle." Scompare un approccio al mondo basato sul senso nobile della vista: anche gli uomini, sembra suggerire l’autore, presto non avranno bisogno di vedere, basterà annusare. Altro che medioevo prossimo venturo: qui si torna all'istinto. E' non è Spengler che affiora sotto l'apparente borbottio qualunquista? "Noi siamo i bianchi arrossati gialli di capelli le cui donne girano scollate e scosciate, siamo quelli che raggiungono età avanzate e non credono a niente... Siamo noi quelli che non lottano in prima persona, ma per interposta e potente organizzazione militare. Eccola la gente d'Occidente, sembrano come svuotati dalla pace. Noi, gli organismi prodotti dal Tempo di Pace, non diamo la vita per la Patria, non sacrifichiamo la nostra esistenza per una battaglia civile, per un ideale politico. Pace pace pace, per noi organismi filtratori, che non sapremo mai nulla di noi stessi, perché la pace ti fa proprio questo, non ti mette alla prova se non nella parte peggiore di te."
Viscerale nostalgia di una società “organica”, nausea per l’utilitarismo, fastidio verso una secolarizzazione che sta cancellando quella che per un paio di millenni è stata l’immagine dell’uomo: come Antonio Scurati, tradizionalista inconfessato, come i critici letterari preoccupati da una generazione che non ha subito traumi, come Walter Siti che vince lo Strega con un romanzo in cui si dice fin dal titolo che resistere non serve a niente, perché i meccanismi mondiali non danno scampo, anche Pecoraro si è ritrovato senza volerlo dall’altra parte dell’emiciclo. Nei Principia, Descartes affermò che le cose naturali, in realtà, sono tutte artificiali. Facciamogli il verso: è già da un po’ di tempo che gli scrittori italiani di sinistra, in realtà, sono tutti di destra.

sabato 15 marzo 2014

Più al birichino che al metafisico



Sono le scene di sesso fra accademici (o fra aspiranti tali) la parte migliore del secondo romanzo di Gilda Policasto, Sotto (Fandango, 278 pagg., 19 euro). Il romanzo d’esordio, Il farmaco, era valso all’autrice l’inserimento nell’antologia di Andrea Cortellessa dedicata ai migliori scrittori degli “anni zero”, cioè del primo decennio del Duemila. A differenza del Farmaco, storia cupa ambientata in un ospedale, Sotto trabocca di un humour raffinato e irriverente (si pensi anche solo al titolo, altro che honni soi qui mal y pense), sicché sembra che con la sua ultima fatica Policastro abbia fatto pace con la sua essenza; un’essenza incline più al birichino che al metafisico, almeno a giudicare dai suoi post su facebook diventati, ormai, quasi un oggetto di culto.
Sotto è ambientato in una facoltà di lettere dominata da un “barone” vecchio e lubrico che porta il nome del re pazzo di Baviera, Ludwig. "Ludwig è un uomo di potere, e quel potere intende come fine, e al fine si tende con i mezzi, e i mezzi di un uomo e una donna sono gli organi sessuali". A imbattersi nel professorone sono due inquiete studiose. L’una, Camilla, è appena stata abbandonata dal compagno, Marco, che ha tagliato la corda lasciandola alle prese con una figlia piccola. L’altra, Alba, ha vinto il concorso di dottorato ma è senza “borsa”, cioè stipendio. Alba ha stipulato con il suo amico Francisco una lista di venti comandamenti, il “ventalogo”, che per esempio vieta di tirarsi i capelli o di mostrare un pezzetto di perizoma durante le riunioni di dipartimento. Tutt’e due attendono l’assunzione a tempo indeterminato e il miracolo che le trasformi ufficialmente in ricercatrici. Perché "è il concorso che ti chiama, non te che ci vai".
Corruzione, arbitrio, demente burocrazia che favorisce le mezze calzette: l’università di Policastro è grigiore attenuato dal sesso sadomasochistico, opacità mai riscattata dall’ambizione intellettuale. Sotto è un raffinato chick-lit per dottorande? Non esageriamo con la severità: Arbasino (le note che chiudono Fratelli d'Italia) echeggia in alcuni dialoghi molto buoni: "Dammi un bacio (con la faccia da teschio)". "No". Certo, a volte si ha l'impressione di leggere Lidia Ravera: "Ma non ci siamo nemmeno presentati, io sono Camilla aveva detto sorridendo coi denti bianchissimi, le lentiggini a tempestarle il naso come le stelline sui biscotti". Però, fra il Venerdì santo del Farmaco e il Giovedì grasso di Sotto, nessuno esiterebbe un istante. Meglio Sade e Klossowski, shakerati da Bridget Jones.

venerdì 28 febbraio 2014

In realtà, demoniache






Stephen Frears è l'uomo che è riuscito a farmi innamorare della regina d'Inghilterra; il che non toglie che il suo ultimo film, Philomena, abbia qualcosa di paralizzato. Per cominciare, il fatto che il protagonista maschile del film sia qualcuno che non può permettersi di biasimare le disumane suore cattoliche all'origine della "mostruosità" raccontata da Frears, perché egli stesso reprobo e "nel fango", impedisce il normale dispiegamento delle argomentazioni pro e contro. In secondo luogo, Frears manipola i rapporti fra comunità, ideologia e società. L'osmosi - e magari la connivenza e il rilancio - fra religione e società irlandese è neutralizzata: il ragazzo che mette incinta Philomena è un deus ex machina all'incontrario (causa il conflitto, invece di risolverlo), è semplicemente "bello", e il film non discute la sua successiva latitanza, quindi la sua correità con il crimine commesso dalle suore. Altrettanto introvabile la domanda che il regista avrebbe dovuto porsi, se cioè la sorte di una ragazza-madre irlandese negli anni Sessanta che non volesse rifugiarsi in un istituto religioso non fosse altrettanto, o più atroce, di quella subita dalla protagonista, il che aprirebbe la questione della solidarietà fra le suore e il contesto in cui operano, appena appena rivelata in un dialogo che si svolge in un pub, dove la barista spiffera tutto al giornalista aggiungendo però che lei "non è una pettegola". Più grave è che le suore siano per sineddoche "tutto" il cattolicesimo, senza eccezioni; quando sarebbe stato facile (ed è la norma nelle opere d'arte scevre da pregiudizi e interessate alla verità, che è sempre prismatica) introdurre figure umane anche fra le suore dell'istituto. Per esempio, quando una suora consegna a Philomena una foto del figlio, verosimilmente ella sa che presto verrà sottratto alla madre; eppure la consegna avviene a ciglio asciutto, senza il minimo coinvolgimento emotivo. E' verosimile, questo gelo? Anche la collaboratrice di colore poteva essere una figura eccentrica, e invece Frears ne ha fatto una specie di brutale questurino. Infine, nel corso del film non compare nessun argomentum ad hominem contro le suore: nessuno che dica loro: credete che le donne sterili alle quali vendete i bambini non abbiano avuto rapporti prematrimoniali? Perché vendete bambini solo ai ricchi? In tutto il film, non c'è nessuno che le accusi di avere frainteso fino alla devastazione il Vangelo; e di essere, in realtà, demoniache.