sabato 9 ottobre 2021

Quasi sempre soccorrevole




 Nella collana "Margini", diretta da Filippo La Porta per la casa editrice romana InShibboleth, è uscito qualche mese fa il secondo romanzo del casertano Francesco Borrasso, Restare vivo. Il primo, che ha rivelato l'autore all'attenzione dei lettori, è stato La bambina celeste (Ad Est dell'Equatore, 2016); dominato dal tema della scomparsa di una figlia (una scomparsa finzionale) ha fatto pensare subito alle opere di Philippe Forrest, ma il volume in realtà alludeva cifratamente a un trauma diverso che adesso, nel romanzo recente, emerge in piena luce. Restare vivo è un viaggio al termine della notte della depressione, descritta con il pathos del topo che cerca disperatamente di uscire dal labirinto avendo come alternativa, in caso di fallimento, il suicidio, che aleggia in ogni pagina. Il sole nero sorge a ventisette anni, ma incuba nell'adolescenza, configurando una vasta stagione di sofferenza. Su un piano ideologico, l'arco della narrazione ricapitola la filosofia della storia cristiana: all'Eden originario segue la Caduta che apre una fase di difficoltà durata fino al momento in cui giunge la Redenzione. L'Eden è rappresentato dall'infanzia e dall'adolescenza, la Caduta da alcune esperienze dolorose sulle quali ci soffermeremo e soprattutto dalla morte del padre, un argomento centrale nelle ultime stagioni della letteratura italiana come mostrano i romanzi di Albinati, Magrelli, Caterini. La Redenzione passa attraverso la capacità riconquistata di progettare e realizzare un'opera letteraria: l'ipotesi salvifica che scrivere un libro possa salvare è inverata dalla pubblicazione della Bambina celeste, grazie alla quale si esce dal tunnel. E' opinione di chi scrive che tale "conquista della scrittura" debba essere intesa meno come un sogno letterario e più come allegoria di una vittoria più profonda, non limitata a quel campo.

Restare vivo si apre con una lettera aperta al padre scomparso materiata in una sequenza di ricordi. Siamo condotti in un mondo fatato e già perduto perché distrutto dal lutto. La vita della famiglia viene trasportata in un dimensione assoluta, priva di coordinate spaziali e temporali. Percepiamo che siamo nel Meridione, intuiamo il lavoro del padre. Le pagine felici della storia, diceva Hegel, sono pagine bianche; qui si potrebbe aggiungere: anche della storia familiare. Non è vero, del resto, che il bambino e anche in parte l'adolescente in Occidente viva in una sorta di pseudo-mondo dove denaro, divisione del lavoro e potere non giocano alcun ruolo? E' un Eden, per l'appunto: i verts paradis di Baudelaire non riguardano solo gli amori infantili, tutta l'esistenza dei bambini è o dovrebbe essere un paradiso verde dove regna la gratuità. Lo stile, che nelle prime pagine potrebbe sembrare a rischio di poeticismo, con questo padre angelicato e quasi sempre soccorrevole, è in realtà mimetico; le scene di un'infanzia serena, anche se venata di inquietudine, si articolano in una sequenza di vetrofanie, di impressioni soprattutto visive fatte di riflessi e di lampi; figure emblematiche e diafane si danno il cambio come allucinazioni, in una sorta di processo primario dove non c'è differenza fra la realtà e il sogno, indistinzione che anticipa le conseguenze di una nevrosi dove è impossibile distinguere fra verità e illusione. E, tuttavia, già nell'infanzia un primo et in Arcadia ego incrina il cristallo: la visita a una parente malata turba profondamente il bambino; per tacere dell'episodio, quintessenzialmente letterario, dello schiaffo del padre. Oltre allo schiaffo subìto da Zeno, potrebbe evocare il ceffone assestato da Zeus nel Prométhée mal enchaȋné di Gide visto che configura un atto gratuito o quasi gratuito, nonché l'innesco (tardivo, goffo, inefficace perché brutale e indecifrabile) di un Edipo. E' come se il padre del narratore decidesse di punto in bianco di uscire dal ruolo di dispensatore d'amore e di protezione per assumere il ruolo, tipicamente paterno, di mediatore fra l'individuo e la legge. L'episodicità di questo scatto, la sua non sistematicità, almeno per come emerge dalle pagine del romanzo (è superfluo ripetere che qualsiasi autobiografia solleva interminabili questioni attinenti alla sua credibilità) potrebbe spiegare la successiva nevrosi del figlio.

Quando si verifica il crack up mentale Francesco è ormai anagraficamente un uomo e lavora al terminale di una sala scommesse. Il posto, che forse condurrebbe alla follia chiunque, configura uno spazio allegorico, legato com'è all'alea del gioco d'azzardo, processo che ipoteca ogni progetto e ogni futuro; per tacere del fatto che un "terminale" - cioè, si presume, uno schermo - separa il protagonista dalla realtà. Il passaggio alla fase delle allucinazioni - in Restare vivo accanto alle crisi di panico e alla melanconia si assiste a episodi apertamente psicotici: in alcuni passi le allucinazioni ricordano per il loro aspetto terrificante gli effetti del laudano descritti nelle Confessioni di un oppiomane inglese di De Quincey - viene predisposto da un impiego quotidiano connesso all'irrealtà. Da lì, in pochi drammatici passaggi, si precipita nel buio della depressione: perduto il lavoro, interrotti i rapporti con gli amici, la luce dell'esistenza si spegne lasciando il posto a un incubo claustrofobico e centripeto dove tutto è cause célèbre, serie di effetti senza cause. Un primo ricorso alla psicoterapia si interrompe di fronte alla brutale sincerità della dottoressa ("sei pazzo, Francesco"); due mesi dopo muore il padre. Mentre il mondo esterno si dissolve, inghiottito da una vorace annihilatio mundi, per un contraccolpo compensativo Francesco si ritrova condannato a una sorta di endoscopia: l'attenzione si sposta sul corpo o al massimo sui vestiti e gli oggetti immediatamente presenti.

Prendiamo sul serio il titolo, "restare vivo", formula anomala ed estranea all'italiano standard. Qual è la differenza fra vivere e restare vivi? E fra restare vivi e sopravvivere? Restare vivi è più che "sopravvivere" perché implica una forma di resistenza. Allude all'imperativo di mantenere un punto fermo, una posizione residuale meramente biologica in attesa che da essa scaturisca il vivere, cioè un processo non angosciato dall'emergenza. Come detto, nella guarigione svolge un ruolo l'ambizione letteraria dell'autore, cui si lega un valore taumaturgico. L'ipotesi di lettura che avanziamo è che, fatta la tara del dolore, vi sia continuità fra l'infanzia e la nevrosi; quest'ultima è ad un tempo l'intensificazione infernale di qualcosa di già attivo -  una seducente fantasmagoria di lotofagi - e la sua manifestazione capovolta. A tale ipotesi interpretativa può essere mossa l'obiezione che l'immagine favolosa, ma erosa e depauperata dell'infanzia e dell'adolescenza che giunge al lettore appartenga al congegno letterario, alle sue necessità architettoniche; oppure che essa sia una conseguenza della stessa depressione, che agisce retrospettivamente rendendo inattingibile la ricchezza della reale esistenza del protagonista (quel tipo di descrizione sarebbe tale cioè in quanto "notizia dall'inferno", visto che l'autore ne parla dopo essere precipitato nel pozzo della depressione). O ancora, che la descrizione abbia una forma deprivata perché la depressione lascia dietro di sé un cono d'ombra che fatica ad estinguersi. Sono obiezioni plausibili, ma riteniamo che cedere alla tentazione di adombrare una lettura che ignori tali obiezioni abbia il pregio di allontanare il romanzo di Borrasso da un genere letterario che il Novecento ha trasformato in "maniera" ("i romanzi basati sui ricordi d'infanzia sono parchi della rimembranza", ha scritto una volta Alberto Arbasino). Veniamo al punto. E' chiaro che la volontà del narratore non è di isolare una patologia antropologico-sociale. Però Restare vivo può essere letto in questo senso. E' una radiografia non dell'elaborazione del lutto, ma della sua impossibilità. In un saggio di Clifford Geerz uscito qualche anno fa per le edizioni del Mulino si racconta la morte di un giovane balinese e la sopravvenuta impossibilità di elaborare il lutto, dell'inceppamento della routine che di solito si innesca in quel caso. Geerz dimostra che l'empasse e le conseguenze drammatiche che ne seguono sono legate alle trasformazioni incontrollabili della società balinese. Se lo scopo della cultura è anche di neutralizzare la finitudine umana, di cui la morte è l'epitome, "elaborazione" significa che due entità separate, natura e cultura, iniziano a dialogare; se la natura ("nostra ignuda natura" è, per Leopardi, la morte) si fa cultura, la morte smette di essere un fatto, un positum e diventa un momento della cultura. Tale dialogo, che l'assurdità della morte rende urgente, quando si tratta della vita può essere rinviato, ma non a lungo. L'ipotesi di una "vita nuda" - come recita una formula molto discussa resa celebre dalla recente filosofia italiana - che metta in contatto diretto l'esistenza naturale e un mondo descritto fisicalisticamente è insostenibile. In Restare vivo si denuncia implicitamente una forma di anomia; la morte del padre, fra l'altro, non è l'innesco della depressione, ma la sua intensificazione. A mancare era un sistema culturale in grado di sostenere non la morte, ma la vita.

Torniamo alla grammatica esistenziale che la pagina di Restare vivo riporta, alla sua "economia". Si tratta di una grammatica totalmente familiare dove la "società civile" (amici di famiglia, colleghi del padre, compagni di scuola) rimane sullo sfondo; se Restare vivo fosse una fotografia, si direbbe che il fotografo ha deciso di mettere a fuoco solo due, tre figure e di sottoporre a un marcato bokeh quel che resta dell'universo. Le stesse figure familiari sono rese attraverso una serie di emblemi, di simulacri, di azioni trasmessi lungo i canali sensoriali (colori, odori, sensazioni tattili ecc.,) indirizzati a una rappresentazione del protagonista come infans, con rare escursioni nel campo del linguaggio verbale. Si parla poco in questo romanzo che tende heideggerianamente all'hören, all'ascolto, e non tanto delle parole degli altri, quanto del propro corpo in balia di forze sconosciute. In un passo del romanzo, Francesco si chiede come fosse possibile, prima della depressione, camminare, guidare, stare con gli altri. Appunto: tali azioni, apparentemente naturali e autoesplicative, sono impossibili se non si ammette l'organicità multidimensionale della vita. Leggiamo dunque di alcuni "amici" che non hanno nome, apprendiamo di un "lavoro" di cui si sa solo che si svolge davanti a un terminale della sala scommesse, di "
colleghi" anche loro anonimi. I nonni sono indicati con l'iniziale, nonno N. e nonna V. Se incontrassimo per strada il fantasma del padre di Francesco, faticheremmo a distinguerlo da qualsiasi altro fantasma di padre. Delle "vacanze" si sa solo che sono al mare e che c'è una spiaggia. Il problema non riguarda il mancato utilizzo del trucco, suggerito dalle scuole di scrittura creativa, di soffermarsi sui dettagli irrilevanti per creare un "effetto realtà"; non è, cioè, compositivo, ma culturale.  Anche le metafore, molto efficaci, sono come in Ovidio prese dalla sfera geometrica o idraulica o meccanica: il ventre del nonno pieno di vino, i capelli che drizzano sulla nuca, la "sconfitta pesante": linguaggio figurato che suscita effetti stranianti perché il mondo in cui è immerso l'essere umano non è una macchina, è un organismo e un intreccio di semiotiche. Purtroppo tale intreccio nel mondo contemporaneo è intellettualmente invisibile; non a caso viene colto solo istintivamente e poi messo da parte come quantité négligéable a vantaggio di altre componenti dell'essere umano (la cultura in senso classico, la scienza, il lavoro). Quando manca del tutto, però, l'individuo crolla e allora bisogna correre ai ripari con una mossa di aggiramento. Non è possibile, per un malato, vedere apparire di colpo il convitato di pietra; bisogna invece acciuffare la guarigione prima che tali osmosi siano ripristinate, contraendo una sorta di debito provvisorio con la società. Con il che giungiamo al secondo aspetto che nella vicenda di Restare vivo ci sembra rilevante. Il lettore non sa perché l'autore di questa cronaca o diario della disperazione soffra e può solo avanzare alcune ipotesi (per esempio, la visita alla parente impossibilitata a muoversi è una sorta di "battesimo del terrore"). La rinuncia a capire, a inchiodare il malessere a una causa curabile, rinuncia senza la quale il romanzo di Borrasso si trasformerebbe in un giallo alla Sherlock Holmes, cioè in un giallo di tipo arcaico dove il detective, qui la psicologa, scopre il responsabile del malessere come Newton scopre la teoria della gravitazione universale, stacca Restare vivo dai tanti racconti di depressione (il capostipite recente dei quali è l'Houellebecq di Estensione del dominio della lotta, in cui l'assassino viene indicato già nel titolo) perché configura un rapporto con la malattia mentale di riconoscimento. Il protagonista vuole sottrarsi al giogo della depressione, ma non attraverso una risposta: attraverso un percorso. La psicologa che lo cura, con una mossa geniale, lo spinge a non chiedersi quale sia la causa originaria del male, ma piuttosto a gestire il male nel presente, a elaborarlo, a trovare un sistema grazie al quale trasformare quello stato, attraverso un atto quasi magico, dall'empasse che era in uno slargo, in una piazza, senza credere di poter uscire da una condizione patologica come si esce da una gabbia. Non è solo una tattica, e se lo è si tratta di una tattica fondata su un atteggiamento fenomenologico, alternativo all'imputazione scientifica delle cause. Che tale trasformazione sia fatta passare per l'ambizione letteraria è significativo: perché se la letteratura ha un senso irriducibile alle altre forme di conoscenza, di certo risiede nella sua capacità di farsi carico di ciò che non può mai essere "risolto", ma solo accettato.