sabato 19 febbraio 2022

Una luce hemingwayana


 

Una volta Anna Lapenna, la moglie di Malerba, mi ha rivelato che quando conobbe Luigi non sapeva che scrivesse. Un giorno, però, lui dovette confessarglielo. "Sai, ho composto alcuni raccontini..." le disse quasi arrossendo. Lei si preoccupò. Di più, era pronta a troncare la relazione. Se non fossero stati buoni, quei "raccontini", non sarebbe mai riuscita a vivere accanto a lui. Ora, non voglio dire che Vittorio Macioce meriti un meridiano come Malerba - magari aspettiamo il secondo romanzo - però per anni chi lo conosce e gli vuole bene (e sono in tanti a volergliene, Vittorio è la persona più generosa che conosca) ha temuto la catastrofe. Il progetto, il "disegno", la minaccia di questo romanzo eternamente in cantiere era diventata incombente, nonché resa più temibile dal timore che il salto dal giornalismo al romanzo potesse fallire. Mi sembra di ricordare che una volta, messo alle strette, adombrò una vicenda alla Cesare Pavese, con la valle di Comino al posto delle Langhe, del John Fante vaporizzato nei vicoli, una luce hemingwayana... Per fortuna gli impegni da giornalista (grazie al cielo c'era sempre un governo vacillante da far cadere, un ministro da puntellare) gli impedivano di porre a termine l'opera, rinviando sine die l'istante universalmente temuto dell'apocatastasi. Quando è uscito il romanzo ho tirato un sospiro di sollievo: è buono, funziona e con il materiale narrativo che contiene si potrebbero scrivere tre o quattro romanzi normali: un'abbondanza di energia che spesso è presente negli esordi. La continuità con il giornalismo, o meglio con lo stile giornalistico di Vittorio, è evidente: nell'uso del tu e nell'accostare alto e basso, nobile e pop, colto e volgare; ma riguarda la microfisica del romanzo, non la struttura generale, che tiene. Inoltre non è mancata la sorpresa. Con una decisione apparentemente snob, di certo spericolata, invece di sceneggiare la sua vita Vittorio ha riscritto il romanzo di Angelica, l'eroina dell'Orlando furioso. In una pagina di Gadda - nella Cognizione del dolore, se ricordo bene - si racconta che il protagonista "amava leggere i romanzi". Gadda non si riferiva a Dickens, ma proprio ad Ariosto, cioè all'epica cavalleresca (i "romanzi cavallereschi", per l'appunto), come a dire quanto di più lontano si possa immaginare dal gusto contemporaneo. Dice Angelica (Salani, 304 pagg., 18 euro) è dunque un romanzo in costume, operazione di distanziamento che da qualche parte deve "rientrare", pena l'anacronismo o l'operazione supercolta, cioè il suicidio letterario. Ebbene, il nostos alla contemporaneità, è questa la sorpresa, risulta non solo agevole (con il senno di poi, naturalmente, tutte le difficoltà sono agevoli): l'Orlando furioso con le sue crociate letterarie mette infatti in scena uno scontro di culture: Occidente contro Oriente, cristiani contro musulmani. "Questo è il nostro western" (e un videogame, parola dell'autore). E' un materiale eccellente per discutere di differenze specifiche fra continenti, di mediazioni culturali e sordità reciproche fra nazioni. Inoltre è un materiale che si presta benissimo, con il suo intrinseco prospettivismo, al gioco illuministico delle turqueries, lettere persiane e micromegate (Ariosto recupera il viaggio spaziale di Luciano che poi, tramite il Cyrano libertino del Voyage dans les Empires de la lune, servirà da spunto a Voltaire). Prospettivismo focalizzato, però, sull'estraneo: Angelica viene da fuori, anzi, dal fuori del fuori, visto che è una straniera anche per gli infedeli. La protagonista, per farla breve, vede (ci vede) dal suo mondo, non siamo noi che la vediamo dal nostro. Un secondo elemento rilevante è che Angelica è una donna, vale a dire una figura che oggi più che mai è al centro di una serie di questioni a volte importanti, a volte esasperanti, spesso imprescindibili. Pegno di guerra in cerca di emancipazione, trasgressiva per indole, spregiudicata nelle sue scelte sessuali, Angelica è un ottimo ballon d'essai. Se non sono stato chiaro: la via al romanzo scelta dall'autore è consistita nel fingere di scrivere un romance e poi metterci dentro un novel. Aggiungo che Dice Angelica rivela alcuni punti forti e non si tratta di aspetti secondari, anzi: sono quelli che distinguono il romanziere di razza dal dilettante. Per cominciare, la padronanza delle scene, l'hic Rhodus hic salta del romanzo moderno: ognuna ha il potere di trasportare al centro della vicenda, con la forza dell'immaginazione e la caratterizzazione dei personaggi. Poi la scrittura, dove senza alcun oltranzismo bellettristico si rasenta il virtuosismo; sulla pagina sfilano frasi musicali articolate in una quantità di modi e polifonia di atteggiamenti narrativi talmente variati che potrebbero essere usate come pietra di paragone per misurare la ricchezza linguistica di qualsiasi romanzo. Infine, gli aspetti prettamente culturali rivelano un'altra sorpresa. Se qualcuno riteneva che l'equilibrato liberismo anarchico che caratterizza l'ideologia di Vittorio fosse incompatibile con la retrospezione, adesso dovrà ricredersi. Se Moby Dick è un'enciclopedia del mare, Dice Angelica è un'enciclopedia del Mediterraneo e dei tre continenti che ne definiscono i confini. Economia, storia, società, l'intera cultura in senso lato: tutto un mondo che abbiamo cominciato a dimenticare quando il baricentro dell'Impero, nel Seicento, si è spostato dal Mare nostro all'Oceano atlantico, trasformando il Mediterraneo in un'area marginale della Weltpolitik. L'elefante bianco di Carlo Magno, Aquisgrana, i paladini: quanti di noi, senza volerlo, hanno lasciato che nel nostro cuore si estinguessero queste specie culturali senza una lacrima, e senza che nessun WWF culturale si attivasse per denunciarne la scomparsa? Del resto, adesso nella Carta abbiamo un articolo espressamente dedicato all'ambiente, ma manca ancora un articolo dedicato alla lingua italiana. Recuperare quel mondo e farlo dialogare con la contemporaneità non è il merito minore di questo romanzo. Anche perché, come ha rivelato il significativo, se non smascherante, imbarazzo di alcuni lettori, anche di quelli più corazzati del cavallo di Orlando, Angelica è un esprit fort e la sua emancipazione non passa per la strada maestra, cosmopolitica e conformista del me too, ma per certi vicoletti nei quali si può incontrare di tutto, persino un cavaliere medievale che blocca il passaggio con uno specchio.

domenica 13 febbraio 2022

Un velo di vernice



Scrivo con colpevole ritardo del diario intellettuale e privato di Domenico Calcaterra (posso dire che è il critico letterario più simpatico? Una simpatia ben collocata fra le altre virtù, beninteso) e per scusarmi approfitto subito slealmente di una citazione da Emerson leggibile nell'Anno del bradipo. Diario di un critico di provincia  (Inschibboleth, 368 pagg., 26 euro): "The Hero is he Who Is immovably centred"; frase che si può accostare all'ormai ubiquo "Non ti disunire!" dell'ultimo film di Sorrentino. Evidentemente non sono un eroe e la dispersione che ne consegue ha un costo alto in termini di tempismo. Ma bando ai preliminari: leggendo il volume di Calcaterra ho la sensazione di attraversare un paesaggio domestico perché la "bolla" è comune: ricorrono spesso le figure di Massimo Onofri, Fabrizio Coscia, Andrea Di Consoli, Andrea Caterini e Filippo Laporta (il volume esce in una bella collana da lui curata), con le quali mi capita di interloquire viso a viso o su facebook. Sensazione raddoppiata dal plauso che Calcaterra rivolge ad alcuni autori del passato che mi sono cari (come Bonaventura Tecchi, germanista e grande affabulatore del quale un paio di anni fa ho usato l'incantevole Svevia, terra di poeti come guida nel corso di un viaggio in Germania). Stessa convergenza di opinioni per molti autori contemporanei, a cominciare da Morandini, alla cui scrittura si dà finalmente lo spazio che merita. A proposito, visto che in una pagina compare il nome del sottoscritto vorrei correggere una piccola svista, forse originata da una mia distrazione: l'uomo che Chiambretti in una trasmissione televisiva, dopo averlo sentito  rispondere alla prima domanda con un eloquio impostato e quasi teatrale, apostrofa con un "Bene, adesso può tornare a parlare con la sua voce normale" non è un poeta, ma Roberto Vacca, "il nostro amato tecnogeremia", come lo chiamava Manganelli. Aggiungo, per non dare l'impressione di unanimismo a prescindere, che a volte non sono d'accordo con le censure, ma lo sono sempre verso le approvazioni. Non solo: anche quando dissento ne condivido l'esperienza. Mi ha molto divertito vederlo stigmatizzare alcuni passi delle celebri Istruzioni per l'uso del lupo: furono esattamente alcune le pagine equivocabili come "baricchiane" a ostruire per me per anni la strada che conduce alle pagine di Emanuele Trevi, che oggi considero l'autore forse più importante di cui disponiamo (e spero che anche Calcaterra finisca per convincersene). Come tacere poi del fastidio - tollerante, ma inequivocabile - per i miti della folla? Come spiegare al barbiere che adora Camilleri che si tratta di paccottiglia, domanda spinosa sollevata nell'autoritratto foscoliano del 22 maggio? Di autoritratto c'è n'è anche un altro, ancora più orgoglioso e che spiega il titolo del volume, il 12 luglio. E c'è il comune legame con la provincia e la finestra aperta sul mondo della scuola.
L'anno del bradipo (il titolo è antifrastico: se c'è un critico che nasconde un motore sempre attivo e un'attenzione sempre vigile è proprio Calcaterra) dispiega un piacevole ritmo triadico fatto di note critiche indirizzate a scrittori, ma anche registi,  attori, altre figure pubbliche; di una prospettiva sociale, di periscopio verso un Paese che ha sempre suscitato negli intellettuali una quantità di sdegni, scandali, ire furibonde; e infine di una mitologia familiare non solo intima, ma "civile" in quanto si articola sui primi due momenti, quello letterario e quello di denuncia del malcostume. Così, per fare un esempio, la figura paterna scomparsa dell'Aviatore è presto incardinata a quella dell'autore di Staccando l'ombra da terra, Del Giudice, notoriamente appassionato di volo; dalla sorella, "la saettante e sgonnellante Basilisca", si fa partire con un espediente dialogico una catena di rimandi fra letterati: con Barnes che cita Ivy Compton Burnett intenta a rivolgersi alla compagna di una vita ormai scomparsa. Tanto per cambiare, anche Ivy Compton-Burnett è una delle mie autrici preferite. Su questo punto, sui ricordi familiari, mi sembra doveroso sottolineare la "differenza" di Calcaterra: l'autore non vuole far soffrire il lettore con i suoi lutti, l'aspetto emotivo è ben custodito e non scodellato sulla pagina. Quando Calcaterra descrive il tramonto dell'Aviatore e di Basilisca lo fa con totale sobrietà, direi con metafisica leggerezza, in modo da offrire al lettore il "fatto" del declino senza obbligarlo a pagarne il prezzo.
Naturalmente Calcaterra è in primo luogo un critico letterario e al centro de L'anno del bradipo c'è un dialogo serrato e disserrato con gli scrittori. Il ritmo del diario impone la stoccata; sono note quotidiane, non operazioni chirurgiche di sei ore, sempre ricche di intuizioni e di spunti radicati nelle copiose letture che si intravedono sullo sfondo e che il lettore specialista potrà sviluppare. Ottocentesco nell'indole un po' per posa e un po' per necessità (non è che la contemporaneità sia tanto attraente...), L'anno del bradipo è dominato dalla letteratura del Novecento. Chi avrà il piacere di percorrerlo nella sua interezza vedrà giungere nelle pagine finali l'ospite indesiderato, la pallottola pelosa del virus. La pandemia stende un velo di vernice sulle riflessioni quotidiane dando loro una strana compiutezza; forse perché L'anno del bradipo è un diario oggettivo, in dialogo non solo con la letteratura, ma con il mondo, ed essere costretti a fare jogging in casa per colpa del Covid 19 non è proprio il massimo dell'estroversione.