venerdì 12 dicembre 2014

Da quale incendio

Giordano di Andrea Caterini, edito da Fazi, ha una “carrozzeria” e un “motore”. La “carrozzeria” è naturalistica: un operaio dipendente, un bravo fabbro, contro il parere dei congiunti si licenzia e apre un’impresa. Il fallimento dell’operazione trascina il protagonista nel baratro. Quanto al “motore”, che costituisce la parte più notevole del romanzo, e che meriterebbe un discorso a parte, è un gioco di spettri costituto dai ricordi di Giordano, dall’impossibilità di elaborare il suo senso di colpa, da una disperazione senza limiti e dunque potenzialmente ingestibile perché immedicabile.
Nella presentazione romana Arnaldo Colasanti ha individuato subito l’essenza di Giordano, da lui considerato un romanzo della “residualità”. Colasanti ha poi esteso tale caratteristica all’uomo contemporaneo nella sua totalità, trasformando un’intuizione accettabile in una tesi ipercritica. Io direi che non siamo tutti residui; e sostenere che il protagonista del romanzo di Caterini, nel suo garage, sia “uguale” a chi va alle presentazioni letterarie mi ricorda la risposta piccata che diede alla madre di François Maspero, reduce dal campo di concentramento, un’amica rimasta al calduccio, a Parigi, annoiata dai racconti del campo: “Cosa credi, anche noi abbiamo sofferto. Per tutto l’inverno abbiamo dovuto fare a meno dell’olio d’oliva.” Forse ha ragione Colasanti, forse siamo tutti residui; ma non tutti allo stesso grado, né allo stesso modo; sospetto inoltre che un contadino del medioevo o un operaio della Manchester di Engels non fosse meno residuale di un lavoratore di call center. La lettura che Colasanti ha offerto di Giordano è però piuttosto complessa, e bisognerà attendere una recensione scritta, che sola avrà valore di documento.
Mi soffermerò sulla struttura naturalistica, nella speranza che risolverne alcuni nodi possa aiutare a decifrare anche la “notte oscura” in cui precipita Giordano. Anzi, più che sulla struttura, sulla filigrana che nasconde. Caterini ha il diritto di respingere un’interpretazione che mette in primo piano ciò che in Giordano è solo accennato, e quindi automaticamente oscura o magari cancella altri passi del romanzo che pure ci sono, e che vanno contro quell’interpretazione. Diciamo che parto dal presupposto che i romanzi siano anche una strana forma di confessione, uno psicodramma dove si dice di più o di meno di ciò che si è disposti a dire, anche se nauralmente questa confessione ha per oggetto mondi possibili, non reali. E che i palinsesti, le filigrane e insomma il morboso corteo di ciò che cova sotto la cenere, per il fatto stesso di non manifestarsi merita l’attenzione del critico. Ma so benissimo che questo, che cioè i fenomeni siano sguardo sul nascosto, e non su ciò che appare, è un vecchio pregiudizio occidentale rilanciato da Freud. Fra l’altro non mi comporto così con qualsiasi romanzo, ma solo quando il gioco tra la superficie e il profondo, il centrale e il marginale costituisce una “virtù” del romanzo stesso. Ho letto e apprezzato Giordano con la testa, come mi accade sempre quando l’autore lavora con un’intelligenza anche teorica e critica sulle parole, ma il piacere del testo che sono riuscito ad estrarre dal romanzo di Caterini e il sottile, perverso turbamento  che scatena mi ha ricordato quel delitto raccontato da Jouhandeau in cui un marito fedifrago uccide la moglie a letto, mentre dorme, e quando questa si sveglia, perché sente le coltellate, lui le dice di stare tranquilla, di non agitarsi e che va tutto bene; proprio per continuare meglio ad ucciderla.
Giordano è un anti-romanzo, perché, come nella tragedia greca, inizia quando tutto è già accaduto, i Persiani hanno già vinto e bisogna solo ricostruire il senso di una sconfitta. Però Giordano è anche un romanzo ultra-cristiano. “Qui non c'è Greco o Giudeo, circonciso o non circonciso, barbaro, scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti" scrive Paolo di Tarso in una lettera ai Colossesi. Bene, andiamo oltre, si sarà detto Caterini: continuiamo a sottrarre parametri, ma, questa volta morali, fino a verificare se questo è un uomo anche se... Perché l’umanità è indocile, non rispetta le regole e si sottrae alle categorie allestite per mettere fuori gioco i subalterni; e il mondo è pieno di barbari felicemente protervi, di schiavi arroganti, di sciti che si danno arie da farisei. Proviamo, allora, a sottrarre non più tratti “secolari”, ma morali. Non togliamo all’uomo la ricchezza, la bellezza, il sapere: togliamogli piuttosto la dignità morale. Ecco allora nascere Giordano, il criminale familiare che fa quasi precipitare moglie e figlio nel baratro della povertà per (così sembra) il capriccio conformistico di far soldi. Ciò che segue è un teatro di spettri dove gli spettri sono i ricordi, cioè, in questo caso, il senso di colpa.
Intanto, è chiaro che Giordano non cade dalla posizione né troppo elevata, né troppo bassa, dalla quale normalmente cadono i protagonisti dei romanzi. Nella Poetica, Aristotele elenca alcuni intrecci che bisogna evitare, per esempio che un personaggio malvagio sia sconfitto, perché questo non genera paura e pietà, dunque nemmeno una catarsi. Va bene, invece, un personaggio “medio”, né troppo buono né troppo cattivo, che per un errore, un faux pas, meglio se dettato dalla scarsità di informazioni, precipita nella sventura. Giordano è questo personaggio “medio”? Direi di no. Credo che nessun romanziere abbia mai annichilito il suo protagonista allo stesso grado di quanto abbia fatto Andrea Caterini con il suo Giordano. Eroi completamente sconfitti non mancano nella storia della letteratura, ma si tratta sempre di sconfitte non presentano lo sconfitto come ignobile. Oppure, se ciò accade (dal Giobbe della Bibbia al Filottete omerico ai personaggi calunniati di Kafka), chi diventa repellente lo diventa per una decisione celeste imperscrutabile, il che produce un duplice effetto: rende inguaribile il male da cui è affetto l’eroe, e lo alleggerisce di una parte delle sue responsabilità (anche se di solito lo lascia in preda al senso di colpa, arcaicamente legato a qualsiasi tipo di fallimento; e poi, nel romanzo moderno, anche in balìa dei dubbi).
A me sembra utile avvicinarsi al tema del fallimento in Giordano tenendo conto del fatto che si può perdere più o meno nobilmente; inoltre dopo il crollo possono accadere cose diverse, aperture o involuzioni (al crack-up di Fitzgerald, espansivo e quasi avventuroso, Deleuze e Guattari contrappongono un crak-down regressivo).
E’, per esempio, un fallimento legittimo e non ignobile quello che  colpisce l’imprenditore che rischia a ragion veduta, e non come rischia chi giochi alla roulette. Giordano, invece, mette a repentaglio la famiglia senza criterio, in forma quasi criminale. Tutti lo sconsigliano di saltare in quella vasca di murene che è il mercato italiano. Lui si tuffa, e lì, dopo qualche bracciata, si lascia sbranare. Foster Wallace ha scritto che il prototipo del suicida è l’uomo che si butta da un palazzo in fiamme; ciò che ha alle spalle, il fuoco, è più doloroso e terrificante della morte che attende giù in strada. Questo spiega la sequenza operativa del suicidio, il “coraggio” del suicida.
Da quale incendio fugge Giordano?
Giordano non ha virtù morali. “Ama e stima tuo padre, se è un uomo buono; altrimenti, almeno, rispettalo” recita il proverbio. Ma Diego non rispetta suo padre. Giordano è pieno di passi in cui, più o meno direttamente, lo insulta, lo degrada.
Che Giordano sia un nulla morale lo rivela Sandro. Il fatto che Sandro ami Giordano è una cause célèbre, nel senso seicentesco di “effetto senza causa”; Giordano si dice: se Sandro mi ama, dovrò pur essere qualcosa di degno... Per essere d’accordo con l’ipotesi di Giordano, il lettore a sua volta deve credergli sulla parola, perché ogniqualvolta Giordano agisce in un contesto relazionale, si rivela l’inanità dei suoi sforzi. A parte la bravura nel suo mestiere, né Marilù né Diego né Sandro rilevano tratti positivi di Giordano, mentre invece è perfettamente visibile il teatro della crudeltà allestito attorno a lui da tutti, anche da chi vorrebbe sottrarlo a quel teatro.
Sempre durante la presentazione romana Aurelio Picca ha tenuto un discorso tempestoso, un’arringa da pubblico ministero contro il teatro della crudeltà che circonda Giordano. Picca (spero di non allontanarmi troppo dal suo pensiero, ma a questo punto non so dove finisca il suo e inizi il mio) ha diabolizzato e psicanalizzato il romanzo di Caterini, smontando l’interpretazione tranquillizzante che stava diffondendosi fra i lettori e inchiodando gli aguzzini del protagonista alla loro ipocrisia. E dunque: carogna la voce narrante, Diego, che tratta il padre come un minus habens; carogna l’amico Sandro, che forse va a letto con la moglie di Giordano e poi ha il coraggio di impancarsi a guaritore, ad accorato mistagogo; carogna la moglie, Marilù, che chiacchiera di notte al telefono ridacchiando con chissà chi mentre il marito muore di tristitia, e non gli stringe la mano nei giorni in cui è all’ospedale per un’ischemia; carogna, soprattutto, l’autore, che osa far uscire Giordano dal garage, luogo infero che condanna solo chi ve l’ha fatto precipitare; resurrezione illegittima, praticamente un’elemosina: perché mentre il crollo di Giordano è un fatto, la sua rinascita è delegata al piano simbolico dei sette santi dormienti, che invece appartiene alla mistica gratuità, a una notte dove tutte le vacche sono nere e dunque è nero anche il loro sangue versato. E a proposito del lieto fine sperato (o, per ricorrere al Lacan citato da Colasanti, allucinato) da Diego, esso è legato ad una frase di Sandro (“...come avete fatto a dimenticarvi di vostro figlio!”) che di nuovo espelle Giordano da se stesso, costringendolo a un salvataggio che fa leva non sull’amore di sé, ma sulla pietà paterna, sull’amore per il figlio. “Come avete fatto a dimenticarvi di vostro figlio” può essere inteso in molti modi, anche come un rappel à l’ordre, l’ingiunzione a tener conto non di se stessi, ma degli altri, che diventano gli unici legittimi beneficiari delle azioni di Giordano.
Picca ha visto giusto. Il suo finale (Giordano che muore nel garage) naturalmente non sarebbe stato possibile, se non altro perché nessun editore oggi stamperebbe un romanzo che è un viaggio al termine della notte senza regalare al lettore, nell’ultima pagina, una palingenesi. Però non c’è dubbio che le virtù di Giordano siano congetturali, il teatro della crudeltà in cui è immerso, invece, un fatto. L’elenco degli atti in cui questo teatro della crudeltà si sviluppa sono infiniti: Giordano è maltrattato dai clienti del garage, la moglie non gli stringe la mano quando sta per morire - tradimento ben più atroce di quello di Sandro, il suo migliore amico - ma soprattutto Sandro e Diego distruggono ogni possibilità di libera espansione di Giordano. Spinoza diceva che la cattiveria è questo: impedire a qualcuno di espandersi alla sua maniera. Kant, affermando che è immorale ignorare che il prossimo abbia (e sia legittimato a inseguire) fini diversi dai nostri, conferma la tesi di Spinoza. Qual è il fine di Giordano? Arricchirsi; ma questo arricchimento è negato in partenza da tutti, da tutti accolto con riserva mentale nella fase del successo (in cui, peraltro, tutti apprezzano Giordano solo come mezzo, non come fine) e considerato universalmente una follia dopo il crollo. Leggendo Giordano, si ha l’impressione che il cliente del garage che prova a parlare con lui - il “dottore” - sia, di fatto, l’unico “angelo” in un romanzo in cui circolano soprattutto esseri inquietanti, demoniaci. Demoniaco l’amico-nemico del cuore Sandro, demoniaca la moglie non-moglie Marilù. Quanto a Diego, è l’epicentro di un sistema domestico basato sull’ipocrisia. Da un punto di vista ideologico, Diego ripulisce denaro sporco.
Giordano, licenziandosi dal lavoro dipendente e mettendo su un’impresa, trasformandosi in partita I.V.A., sembra voler riconquistare una vita che ha perso l’elemento lineare dell’avventura, ed è ormai solo cerchio, tempo ciclico. Gli obiettivi veri, però, sono altri. Giordano, per cominciare, cerca di reagire alla sua nullità morale con il solo altro nulla immediatamente disponibile, a scopo di riscatto, nella nostra società: il denaro, il lavoro sociale ridotto a pura astrazione. Che sia così lo dimostra il fatto che appena Giordano riesce a fare un po’ di soldi, la sua grettezza cresce, non diminuisce (afferma che chi non può acquistare una Mercedes è un “morto di fame”, con la tipica spietatezza del parvenu). Il figlio, naturalmente, se ne avvede e inchioda il padre alla sua indegnità, in quello che è forse il passo più atroce del romanzo: Diego dimostra che la società che ha distrutto il sogno di emancipazione solo apparentemente economica di Giordano ha un volto che è identico a quello dello stesso Giordano, così com’era prima del crollo... Apparentemente: perché in realtà il desiderio di diventare imprenditore ha in vista un riscatto della dignità; per Giordano buttarsi nel mercato e metter su un’impresa è un modo per liberarsi dall’approvazione “a prescindere”, sospetta e in ultima istanza avvilente, di Sandro, e tentare di raggiungere un successo per il quale essere ammirato su basi concrete, non arbitrarie. “Quando il padre e il figlio smisero di rispettarsi, allora si inventò la pietà paterna e filiale”, si legge nel Tao Te Ching. Giordano è un uomo in fuga dall’agape domestica.
Resterebbe da dire che la sua resurrezione, per fortuna, è solo immaginata. Se Caterini ne avesse tratto una resurrezione reale, Diego avrebbe commesso il più grave dei crimini, la cancellazione morale del padre. Ma, sperata o reale che sia, deve essere chiaro che l’uscita di Giordano dal tunnel della disperazione, una rinascita che sembra diventare possibile solo nell’attimo in cui inizia l’elaborazione del senso di colpa, ha in vista la guarigione dal senso di colpa del figlio, non da quello del padre.