
martedì 9 ottobre 2012
Cuore di latta
Negli ultimi anni Sebastiano Vassalli ha pubblicato volumi generalmente ottimi, dove le vicende più varie diventano uno strumento perfetto - quasi un megafono - nelle mani del severo moralista che lo scrittore della Chimera è e vuole essere. Una severità che traspare persino dai risvolti di copertina, nei quali immancabilmente compare la formula (a dire il vero leggermente comica) “Per volontà dell’autore questo romanzo non partecipa a premi letterari”. Dell'autore: nel caso a qualcuno venisse il sospetto che non vi partecipi per volontà dell’editore, o magari dei giurati... In realtà, l’estraneità di Vassalli a certa cattiva società letteraria è una conseguenza del suo fastidio verso il nostro tempo, come rivela la fiaba atipica di Comprare il sole (Einaudi, 180 pagg, 18 euro).
Il personaggio principale del romanzo, Nadia Motta, vive in un mondo infestato dalle virgolette. Studentessa di psicologia, Nadia ogni tanto va “a dare un esame”, si paga gli studi facendo la “baby sitter”, apprezza la stagione (felice su tutte, chiosa sarcastico Vassalli) dei “saldi”. Poi, un giorno, acquista un biglietto della lotteria e vince ventisei milioni di euro. Avere in tasca una somma simile le consente di liberarsi in un batter d'occhio del fidanzato (che lei chiama “il mio babbeo”) e della madre troppo invadente, una femminista storica tutta gonne lunghe e scialli di lana. Dopodiché, piena di quattrini, Nadia può felicemente incamminarsi verso il suo paradiso personale: un gigantesco outlet, variante postmoderna del mito novecentista dei grandi magazzini. “Perché i soldi non danno la felicità, ma tutto il resto sì”. Ancora qualche settimana e un suo amico professore, dopo averle spiegato che non basta avere un conto in banca a sei zeri per essere considerati ricchi, le presenterà un avvocato il quale saprà investire l'inattesa fortuna in alcune società offshore, con i risultati che si possono immaginare.
Favola atipica, si diceva, e non solo per l’argomento. Il fatto è che nella nostra cultura, per complesse ragioni cattoliche, marxiste o wagneriane, siamo convinti che il denaro uccida l'amore e che la ricchezza, la ricchezza vera, sia incompatibile con la spontaneità di ogni sentimento. Ma Nadia aveva il cuore di latta anche quando era povera e quindi, a parte un po' di virgolette, dalla vincita alla lotteria non ha nulla da perdere. Che Vassalli, con la consueta spietatezza, stia avvertendoci che ormai è troppo tardi per tutto, anche per approfittare della nostra mancanza di umanità?
domenica 23 settembre 2012
Del maggiore scrittore italiano
Nel 2008, in occasione del centenario della nascita di Claude Lévi-Strauss, Alberto Arbasino tornò a viaggiare nei luoghi di Tristi tropici, lo straordinario diario amazzonico con il quale nel 1955 il grande antropologo francese rischiò di vincere il premio Goncourt. Di questo viaggio si pubblica oggi il resoconto (Pensieri selvaggi a Buenos Aires, Adelphi, 125 pagg., 10 euro). Notoriamente impermeabile alle suggestioni primitiviste o terzomondiste, e dunque refrattario alla fascinazione etnologica o radical chic per gli indigeni delle foreste sudamericane, Arbasino accantona subito il relativismo di Lévi-Strauss a vantaggio di un orgoglioso cosmopolitismo di marca occidentale. Tutto riconduce all’Europa: il Palazzo del Governo di Lima e la cattedrale di Buenos Aires rinviano rispettivamente a una centrale nucleare e a una stazione parigina, mentre “Il complesso di Santa Rosa a Lima, a Lima appare molto più trafficato del popolare corso Buenos Aires a Milano al culmine delle liquidazioni”. Quanto a Santa Rosa, impossibile non farle evocare i facchini che a Viterbo, una volta l’anno, trasportano per i vicoli della città una "macchina che pesa cinque tonnellate". Legioni di lettori si sono sentite infastidite da questa folle corsa al rimando, qui persino più accentuata del solito. Non hanno tutti i torti, certo; ma neanche tutte le ragioni. Due, infatti, sono i modi in cui i grandi scrittori maturano e invecchiano: radicalizzando il loro atteggiamento fino a diventare impervi (è il caso, per esempio, di Joyce) oppure raggiungendo un’impressionante, ma umana maestria (ed è il caso, oggi, di Philip Roth). Perché mai si dovrebbe negare ad Arbasino il diritto di ricadere nella prima categoria? In fondo, stiamo parlando del maggiore scrittore italiano. Agli ultimi riottosi, allora, a coloro che dell’autore di Fratelli d’Italia detestano le articolesse comparse su Repubblica o i "pizzini" inviati al Corriere, vorremmo dare un piccolo suggerimento: di sfogliare con attenzione le pagine finali di Pensieri selvaggi a Buenos Aires. Contengono una splendida intervista di Arbasino a Borges, risalente al 1977. Vi si discetta di realismo e di immaginazione, e lo si fa con profondità, competenza e un pizzico di birichineria. E forse, con un po’ di ottimismo si potrebbe osservare che tante noiose polemiche sul realismo non ci sarebbero state, se avessimo per tempo dato retta alle parole di Borges.
lunedì 10 settembre 2012
Mai sotto Čechov
L'escursione dovrebbe durare circa due ore, ma a giudicare dagli sguardi dei partecipanti sono in pochi a crederci; anche perché è notte fonda e ha piovuto tutto il pomeriggio. Al campo base ci sottopongono ad un briefing; poi, dopo averci consegnato un lungo bastone dalla punta luminosa, che dovrebbe impedirci di precipitare in qualche burrone, si parte. All'inizio la pendenza è appena percettibile, ma ben presto la passeggiata diventa una scalata di terzo grado. Si inciampa nella brughiera, si scivola sulle pietre bagnate. Ma quando finalmente si arriva in cima all' "Arthur seat", lo sperone roccioso che domina Edimburgo, si riconosce che ne valeva la pena: avere la città ai piedi ripaga della fatica e dell'incipiente raffreddore. Mentre godiamo il panorama, nell'aria gelata si diffonde una musichetta proveniente dai nostri buffi bastoni laser, ognuno dei quali contiene un microchip che ha memorizzato ogni movimento e lo trasforma in suono.
Nella capitale della Scozia l'estate del 2012 sarà ricordata probabilmente per lo Speed of Light, un po' scampagnata notturna e un po' puttanata new age. Quello che non si vede dall' "Arthur Seat" è che nel mese di agosto la popolazione cittadina raddoppia ed Edimburgo, letteralmente, scoppia: di turismo, di musica, ma soprattutto di teatro. Due dei quattro festival in corso (gli altri sono l'"International book festival" e il "F.O.P.", dedicato alla discussione politica) curano in particolar modo l'arte della recitazione. L'"Edinburgh International Festival" è la rassegna ufficiale, alla quale partecipano le compagnie più affermate, mentre il "Fringe", il festival della "frangia" esclusa dal circolo dei privilegiati, è un immenso calderone nel quale bollono quasi millenovecento spettacoli. Ma chi credesse che sperimentazioni sovralunari e novità mozzafiato siano appannaggio del "Fringe" può iniziare a ricredersi. E' solo un'impressione, ma si ha il sospetto che nel festival internazionale dominino le opere sperimentali, spesso deludenti; mentre anche il più ambizioso degli spettacoli del "Fringe" poggia i piedi per terra. Il contrario, insomma, di ciò che accade in Italia, dove ciò che è sperimentale non può né deve mai essere "ufficiale".
Cominciamo con la rassegna più prestigiosa. L'attesissima trasposizione teatrale dei Viaggi di Gulliver, ad opera del romeno Silviu Purcărete, ha deluso. Prima che inizi lo spettacolo cinque inquietanti donne-giumenta, appartenenti al popolo immaginario degli Houyhnhnms, zoppicano nella penombra, promettendo efferatezze. E le scene sono indubbiamente meravigliose: una luce da solare granaio balcanico fa splendere i quintali di paglia distribuiti sul palcoscenico per consentire a un cavallo vivo di muoversi fra gli attori. Ma lo sviluppo drammatico è esile e ignora la struttura del celebre romanzo di Swift, trattato alla stregua di un banale misantropo irlandese. Nel Macbeth del polacco Grzegorz Jarzyna, ambientato in un generico Medio Oriente, Macbeth è un graduato che atterra con l'elicottero su un bunker infestato da musulmani ("Here is major Macbeth, and I'm landing!"); a parte questo, il Medio Oriente presta alla pièce solo l'atmosfera, e poco altro. In Tatyana una decina di ballerini brasiliani cercano di danzare come i loro colleghi del Bol'šoj, con i risultati che è facile intuire. E appartiene al festival ufficiale anche il velleitario Speed of light.
Se invece dall'"Edinburgh International Festival" ci spostiamo al "Fringe", salta subito agli occhi una concretezza tutt'altro che sperimentale, e a volte persino reazionaria. Maurice's Jubilee, storia di un gioielliere al quale Elisabetta II, il giorno della sua incoronazione, promette che sessant'anni dopo verrà a cercarlo, è basato su un copione antidiluviano che potrebbe essere di Oscar Wilde, basta sostituire la regina Elisabetta con la regina Vittoria. In Still life Sue MacLaine, attrice di vaglia che in passato ha affiancato gente del calibro di Kennet Branagh, recita completamente nuda mentre gli spettatori, ai quali è stata consegnata una matita affilata e dei fogli da disegno, devono ritrarla. Dietro l'originalità della "trovata", però, si cela il classico monologo autobiografico, travestito da corso di pittura. The Sh*t!, la produzione orgogliosamente italiana con cui Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano hanno conquistato la rocca impenetrabile della critica britannica, dal Time's al Guardian, mostra l'orrore prodotto dalla forzata convivenza fra la società dello spettacolo e la morale ipocrita distribuita in dosi massicce al popolo per "tamponare" gli effetti di quella stessa società, ma lo fa senza perdere di vista gli strumenti del teatro, in questo caso il corpo nudo e vociferante dell'attrice. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: uno spettacolo di marionette trabocca di rinvii al mito di Orfeo, ma li irregimenta in una trama di ferro che appassiona i bambini; una commediaccia sulla storia del Regno Unito è piena di arti amputati e di secchi di finto liquame lanciati sul pubblico esilarato, eppure spinge al pacifismo più di venti Marco Paolini. Il risultato? Platee strapiene e recensioni positive: nel paese di Thackeray il segno distintivo del grand'uomo è ancora il successo; mentre per noi italiani, che prolunghiamo la linea Adorno-Fortini, il successo testimonia piuttosto di una truffa in corso. Ecco allora, da noi, le filodrammatiche che non scendono mai sotto Čechov, le villette di campagna che volendo essere palladiane distruggono il paesaggio, gli imprenditori dilettanti che fanno il passo più lungo della gamba e poi si lamentano dello Stato che non li sostiene. E naturalmente le compagnie di attori che svuotano sistematicamente i teatri, e poi pretendono un salvagente.
Nella capitale della Scozia l'estate del 2012 sarà ricordata probabilmente per lo Speed of Light, un po' scampagnata notturna e un po' puttanata new age. Quello che non si vede dall' "Arthur Seat" è che nel mese di agosto la popolazione cittadina raddoppia ed Edimburgo, letteralmente, scoppia: di turismo, di musica, ma soprattutto di teatro. Due dei quattro festival in corso (gli altri sono l'"International book festival" e il "F.O.P.", dedicato alla discussione politica) curano in particolar modo l'arte della recitazione. L'"Edinburgh International Festival" è la rassegna ufficiale, alla quale partecipano le compagnie più affermate, mentre il "Fringe", il festival della "frangia" esclusa dal circolo dei privilegiati, è un immenso calderone nel quale bollono quasi millenovecento spettacoli. Ma chi credesse che sperimentazioni sovralunari e novità mozzafiato siano appannaggio del "Fringe" può iniziare a ricredersi. E' solo un'impressione, ma si ha il sospetto che nel festival internazionale dominino le opere sperimentali, spesso deludenti; mentre anche il più ambizioso degli spettacoli del "Fringe" poggia i piedi per terra. Il contrario, insomma, di ciò che accade in Italia, dove ciò che è sperimentale non può né deve mai essere "ufficiale".
Cominciamo con la rassegna più prestigiosa. L'attesissima trasposizione teatrale dei Viaggi di Gulliver, ad opera del romeno Silviu Purcărete, ha deluso. Prima che inizi lo spettacolo cinque inquietanti donne-giumenta, appartenenti al popolo immaginario degli Houyhnhnms, zoppicano nella penombra, promettendo efferatezze. E le scene sono indubbiamente meravigliose: una luce da solare granaio balcanico fa splendere i quintali di paglia distribuiti sul palcoscenico per consentire a un cavallo vivo di muoversi fra gli attori. Ma lo sviluppo drammatico è esile e ignora la struttura del celebre romanzo di Swift, trattato alla stregua di un banale misantropo irlandese. Nel Macbeth del polacco Grzegorz Jarzyna, ambientato in un generico Medio Oriente, Macbeth è un graduato che atterra con l'elicottero su un bunker infestato da musulmani ("Here is major Macbeth, and I'm landing!"); a parte questo, il Medio Oriente presta alla pièce solo l'atmosfera, e poco altro. In Tatyana una decina di ballerini brasiliani cercano di danzare come i loro colleghi del Bol'šoj, con i risultati che è facile intuire. E appartiene al festival ufficiale anche il velleitario Speed of light.
Se invece dall'"Edinburgh International Festival" ci spostiamo al "Fringe", salta subito agli occhi una concretezza tutt'altro che sperimentale, e a volte persino reazionaria. Maurice's Jubilee, storia di un gioielliere al quale Elisabetta II, il giorno della sua incoronazione, promette che sessant'anni dopo verrà a cercarlo, è basato su un copione antidiluviano che potrebbe essere di Oscar Wilde, basta sostituire la regina Elisabetta con la regina Vittoria. In Still life Sue MacLaine, attrice di vaglia che in passato ha affiancato gente del calibro di Kennet Branagh, recita completamente nuda mentre gli spettatori, ai quali è stata consegnata una matita affilata e dei fogli da disegno, devono ritrarla. Dietro l'originalità della "trovata", però, si cela il classico monologo autobiografico, travestito da corso di pittura. The Sh*t!, la produzione orgogliosamente italiana con cui Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano hanno conquistato la rocca impenetrabile della critica britannica, dal Time's al Guardian, mostra l'orrore prodotto dalla forzata convivenza fra la società dello spettacolo e la morale ipocrita distribuita in dosi massicce al popolo per "tamponare" gli effetti di quella stessa società, ma lo fa senza perdere di vista gli strumenti del teatro, in questo caso il corpo nudo e vociferante dell'attrice. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: uno spettacolo di marionette trabocca di rinvii al mito di Orfeo, ma li irregimenta in una trama di ferro che appassiona i bambini; una commediaccia sulla storia del Regno Unito è piena di arti amputati e di secchi di finto liquame lanciati sul pubblico esilarato, eppure spinge al pacifismo più di venti Marco Paolini. Il risultato? Platee strapiene e recensioni positive: nel paese di Thackeray il segno distintivo del grand'uomo è ancora il successo; mentre per noi italiani, che prolunghiamo la linea Adorno-Fortini, il successo testimonia piuttosto di una truffa in corso. Ecco allora, da noi, le filodrammatiche che non scendono mai sotto Čechov, le villette di campagna che volendo essere palladiane distruggono il paesaggio, gli imprenditori dilettanti che fanno il passo più lungo della gamba e poi si lamentano dello Stato che non li sostiene. E naturalmente le compagnie di attori che svuotano sistematicamente i teatri, e poi pretendono un salvagente.
lunedì 30 aprile 2012
Dalla politica, e dal Portogallo
Dopo la morte di Tabucchi, molti amici hanno provato a farmi cambiare idea, prestandomi raccolte di racconti, romanzi ecc. Queste premure non solo non hanno ottenuto il risultato sperato, ma sono state controproducenti ed hanno confermato il mio pregiudizio sullo scrittore, perlomeno finché non ho ascoltato il parere di Manuel Burderi, e mi sono fatto mandare una copia di Notturno indiano. Dopo averlo letto, mi sono convinto che Antonio Tabucchi sia stato un grande scrittore rovinato da due cose: dalla politica, e dal Portogallo.
venerdì 23 marzo 2012
Humor nero
Domenico Calcaterra (nella foto). "La gallina" di Fabrizio Ottaviani. Articolo comparso nel sito Sul romanzo,
Trovo
più che mai auspicabile il ritorno a una letteratura, una narrativa che
non sia immediatamente rivolta al racconto in presa diretta della
realtà. E reputo oltremodo necessari e preziosi libri (e dunque autori)
che conservino oggi il coraggio intellettuale di andare, in tempi di
facile e scontato iper-realismo, tanto nella lingua quanto nella scelta
delle cose da raccontare, controcorrente. A confermarmelo, semmai ve ne
fosse stato bisogno, l'ottimo esordio romanzesco di Fabrizio Ottaviani,
finora conosciuto e apprezzato come brillante critico militante de «Il
Giornale».
Con il suo La gallina
(edito da Marsilio), Ottaviani ci regala infatti una storia di scarna
essenzialità narrativa, attingendo con sorvegliata misura ai toni
esilaranti della farsa, qui marcatamente virati di humor nero.
Un bizzarro e buffo
dono, la gallina del titolo appunto, recapitata da una misteriosa
vecchia abbigliata come uno spaventapasseri in casa di Elena e
Massimiliano De Giorgi, stimata famiglia dell'alta borghesia d'una ricca
imprecisata cittadina europea, diviene l'inatteso elemento dirompente a
spazzare e mettere in crisi la presunta normalità della vita dei
coniugi (e dei domestici di casa), fino all'inevitabile catastrofe (che
sin dal sinistro avvio viene lasciata facilmente intuire al lettore): la
«caduta di casa De Giorgi». Dall'interrogarsi sul mistero di
quel curioso regalo alla necessità di sbarazzarsene in fretta per
ragioni di decoro e rispettabilità, la carica distruttiva innescata da
quella indesiderata e inquietante presenza animale segna un'escalation
di lacerazioni e attriti, invidie e ripicche, debolezze e pretenzioni.
La gallina, fungendo da detonatore assurdo, risulta essere dunque la
vera protagonista della storia, allegoria della condizione umana, o
meglio della miseria morale dalla quale non salva nemmeno l'accomodante
bugia di «un'abitudine senza usura»; che quando si spalanca,
lucido, lo sguardo sulla desolante regione del nostro quotidiano, la
minaccia d'estinzione già incombe. Ma funziona forse e ancor più come
impietoso monito contro ogni trascurato cedimento, smarrimento privato o
collettivo.
Come a voler far
conoscere i singoli universi esistenziali d'ognuno, Ottaviani fa entrare
in scena ciascun personaggio nel momento cruciale dell'incontro con la
spiazzante grottesca novità, costruendo un simmetrico contrappunto di
rapporti e alleanze incrociate tra le due coppie: i padroni di casa Max
ed Elena e i due domestici, il maggiordomo Anselmo e la cuoca Irene, «copia attiva»
e rissosa dei loro padroni; tutti presto inesorabilmente coinvolti in
un'asfissiante spirale di crescente ottusità. A suggellare lo «stigma del grottesco»
non poteva infine mancare il risvolto legale, similkafkiano, della
faccenda, con tanto di celebrazione di un paradossale processo per
corruzione di cui il sinistro dono costituirebbe la prova (di scoperta
ascendenza kafkiana riescono inoltre taluni luoghi come il tribunale
fatto di lastre trasparenti di cristallo, perché tutti possano seguire
dall'esterno lo svolgimento d'ogni processo, e l'imponente sede delle
Nuove Imprese Stabili, nel cuore della città, un grattacielo-pendolo in
vetrocemento dal precarissimo equilibrio).
Asciutto, nel suo
prefigurarsi come minimale meccanismo, esperimento narrativo più che
vera autentica narrazione (tanto che sin da subito monta la curiosità
per il lettore di sapere fin dove lo scrittore voglia menare la danza),
il teatrino grottesco allestito da Ottaviani colpisce per il suo filare
dritto al punto, con implacabile, appuntito e chirurgico dettato, senza
sbavature e mai nulla concedendo a leziosi indugi di colore.
Ottaviani, infine,
non rinuncia a raccontarci, epperò sempre nella sua maniera allegorica,
della storia attuale del nostro Paese, quando inserisce nel romanzo quel
medaglione figurale (quasi una visione decontestualizzata dal resto)
del ragazzino che si affretta ad abbozzare sulle pareti translucide del
palazzo di giustizia una mongolfiera tricolore che trascina in cielo due
passeggeri: uno ghignante e armato di lanciafiamme, l'altro che tenta
di bloccarlo, ma terrorizzato di compromettere del tutto la gita in
pallone. Un'iconetta assai eloquente (più di mille spiegazioni)
sull'Italia e il carattere bifronte degli italiani.
mercoledì 7 marzo 2012
Una patina di vetustà
Caterina Falotico Vitelli su Fabrizio Ottaviani, La gallina, Marsilio. Recensione comparsa nel numero 267 (gennaio-febbraio 2012) de L'immaginazione.
Già da qualche tempo Fabrizio Ottaviani, nella veste di critico letterario, si è posto il problema del perché in Italia, a differenza di altri Paesi, non sia mai nato il "Grande Romanzo Leggibile", rimanendo così la nostra editoria bloccata nell'impasse fra brutti best seller e libri belli ma senza vendita e senza lettori.
Intanto lui ci prova esordendo con La gallina, un'opera che, come l'animale protagonista, mira a creare scompiglio all'interno di consuetudini consolidate nella narrativa oggi prevalente.
Il romanzo vive di mistero e nel mistero, impegnando il lettore in un non facile lavoro ermeneutico alla ricerca di un significato. Ma il senso ci sarà mai? O è anch'esso una sovrastruttura del pensiero, un baluardo per addomesticare ciò che non è addomesticabile? La gallina, animale apparentemente familiare, cola in sé la lontana origine rapace o di leggendario drago che nell'iconografia religiosa soggiace a un san Michele vittorioso. Qui, invece, è il santo a soggiacere al drago, è l'essere che si ritiene superiore a retrocedere verso una progressiva degradazione fino all'inarrestabile catastrofe.
Questo libro va letto come un sogno e ai sogni non si richiede né la coerenza logica né l'esattezza in qualche modo mimetica del reale. L'autore lascia di proposito in sospeso il luogo e il tempo che fanno da sfondo alla vicenda narrata, avvolge di ambiguità i fatti, come pure i personaggi, peccatori o innocenti, inetti o cinici, sentimentali o glaciali a corrente alternata.
Il tono è a tratti fiabesco con una patina di vetustà che non impedisce squarci di una ben nota contemporaneità. C'è un interno di casa altoborghese con tanto di maggiordomo in livrea, cuoca, busti marmorei e quadri antichi alle pareti; ma ci sono anche un'azienda-grattacielo dalla fragile aerodinamica, dove si complotta con spietata logica economicistica, e un tribunale dalle pareti trasparenti, palcoscenico popolare di una giustizia-spettacolo.
Fabrizio Ottaviani ha voluto tenere insieme l'immaginario e la realtà, facendo convergere "due termini che se vengono contrapposti formano una delle antitesi più fumose". E ci è riuscito scrivendo un romanzo senz'altro intelligente e provocatorio, anche se a tratti appesantito da qualche allegorismo di troppo. Ma anche avrebbe giovato a quella leggibilità invocata dallo scrittore un alleggerimento della parte iniziale che certo risponde allo scopo di creare un alone di irrealtà, imbarazzante e grottesca, intorno agli i inutili quanto rocamboleschi tentativi di uccidere nientemeno che una gallina! Un gesto facile, ordinario che qui si complica - c'è persino i l ricorso ad un chimico facitore di veleni, metà mago metà gaglioffo- in un crescendo di sospetti malintesi illazioni culminanti in una nottataccia al cui confronto la notte degli imbrogli di manzoniana memoria è poca cosa.
Da questo punto in poi la narrazione trabocca di trovate che suscitano sconcerto e stupore, amarezza e comicità, insieme alla sensazione di trovarsi dinanzi ad un beffardo nonsense. In un clima da tragicommedia diventano facili bersagli certi cliché letterari che appartengono al noir e al racconto psicanalitico: la fuga disperata della cuoca Irene nel cuore della mezzanotte per sfuggire al suo inseguitore, un Adelmo trasformatosi in "spietato imperatore cinese"; l'affiorare inatteso di traumi infantili nella confessione-rivelazione del maggiordomo; l'origine familiare alla base dell'ossessione investigativa del medico di guardia.
Pochi i fatti di questo romanzo e si svolgono prevalentemente nell dimora dei potenti coniugi Elena e Massimiliano De Giorgi. Qui, un giorno qualunque, un vecchia vestita da spaventapasseri consegna all'imbranato maggiordomo Adelmo una gallina viva, e lo fa con la perentorietà e la naturalezza di una fornitrice che esegue una disposizione. Ma la gallina non è mai stata richiesta né dai padroni né dalla cuoca Irene in perenne conflittualità con il maggiordomo. L'animale, entrato in casa, distrugge arredi e suppellettili, deposita dappertutto il suo sterco, cancellando ogni traccia di fasto e di decoro. Complice la gallina starnazzante, si mette in moto contro i De Giorgi un'infernale macchina del fango che procede fra delazioni, sentenze di magistrati compiacenti, denunce di medici in balia delle proprie nevrosi. Essa non si ferma nemmeno dinanzi alla morte, in un gioco al massacro testimoniato dalla truculenta scena di caccia dell'arazzo rimasto illeso sulle pareti del salone avito.
Al lettore è demandato il compito di trovare risposta ai tanti interrogativi rimasti aperti, a cominciare dall'identità della vecchia per finire all'inquietante personalità del maggiordomo, l'unico a ricavare vantaggio dalla tragica fine dei suoi padroni. E tuttavia il focus di tanto mistero è la gallina, simbolo di un mondo impazzito, di un "pianeta fuori dai gangheri", ove è imploso ogni tentativo di ragionevolezza, per cui alla fine "non si sa nemmeno se dietro la consegna della gallina vi fosse un piano".
Il romanzo di Ottaviani è un apologo surreale che racconta non solo il tracollo della civiltà, ma anche lo smacco metafisico per cui il male, esorcizzato invano attraverso metafore animali, rimane dentro di noi, nella nostra origine e nella stessa creazione. La gallina non è mai entrata dalla porta di casa, vive da sempre nella dimora umana, essendo la materializzazione di quel Nulla che siamo e da cui veniamo. ("Fu infatti assalita dall'oscura convinzione che quelle penne fossero sorte dalla polvere, e che tra di esse e l'appartamento regnasse un rapporto di filiazione").
mercoledì 18 gennaio 2012
Fabrizio Ottaviani
La testata di Zidane, l'ordalia e l'onore perduto dell'Italia
Prefazione
Nato come instant book, e pubblicato solo adesso "in epoca non sospetta" grazie al servizio di auto edizione Amazon, La testata di Zidane e l'onore perduto dell'Italia è un dialogo ispirato al Sogno di d'Alambert, uno scritto del 1769 in cui il philosophe Denis Diderot metteva in bocca al suo sodale, addormentatosi per colpa di una specie di influenza in casa della sua amante e dunque pressoché semisvenuto per la febbre, tesi materialistiche molto scomode. Diderot passerà in seguito alcuni mesi nella torre-prigione di Vincennes per aver sostenuto, fra l'altro, che se Dio avesse voluto fabbricare un uomo alla maniera di Descartes, avrebbe fatto bene a mettergli l'anima sulla punta delle dita, perché è da lì - dai sensi, non dall'anima - che provengono tutte le conoscenze. Prima di andare avanti con questa prefazione, però, vorrei avvertire il lettore che non fosse interessato né alla celebre testata di Zidane, né all'onore della Patria, che questo scritto introduttivo si conclude con l'esposizione di una diagnosi, con l'individuazione di una tabe prettamente italiana, e che dunque forse vale la pena continuare a leggere, perché alla fine lo sforzo sarà premiato.
Sarà il caso, per cominciare, di dire che l'idea di scrivere un dialogo sul chiacchieratissimo coup de boule nasce all'incrocio fra due spinte: la lugubre fascinazione per il gesto di Zidane, e il fastidio per la mancata reazione degli italiani di fronte a tale gesto. Fascinazione, certo: perché anche se la testata di Zidane, a differenza, mettiamo, del "naufragio" di Nobile, e più recentemente della morte in un tunnel di Lady Diana (eventi mediatici che assumono le dimensioni del mito: cioè di eventi infinitamente interpretabili e contemporaneamente univoci, quasi paradigmatici) la testata di Zidane possiede la capacità di concentrare in un punto una quantità di problemi - nazionali, sociali, psicologici - e dunque, inevitabilmente, affascina. La successiva operazione "mafiosa" dei francesi, che furono bravissimi a trasformare il colpevole in vittima, mostrando un'abilità nel mistificare superiore a quella rivelata, negli anni precedenti, dalle vicende di molti politici italiani; la rivelazione" della micragnosità dei francesi mi sembrò talmente spaventosa che mi sarei aspettato da parte italiana una reazione lucida e spietata. Invece, come noto, non vi fu niente del genere. Solo una minutaglia di piccole frasi ironiche, comparse sui giornali o proferite dai giornalisti televisivi, frasi a volte controproducenti. Sembrava che la vittoria avesse reso inutile il giudizio; ma perché ciò fosse ammissibile era necessario che la vittoria fosse essa stessa un giudizio. Inevitabile fu, allora, pensare all'ordalia, dove la sconfitta è ipso facto una condanna e il trionfo rende inutile e sospetto indagare le ragioni della vittoria. Gli italiani, era evidente, non avevano nessuna voglia di difendere Materazzi. Ma al di fuori del sistema germanico dell'ordalia, il fatto di aver vinto li esimeva dal proteggere la vittoria da ogni attacco mediatico? Lo scandalo di una mancata elaborazione della felicità (perché c'è un'elaborazione della felicità, così come ce n'è una del lutto) bastò a convincermi che fosse opportuno gettarsi nel terribile ginepraio del post-sbornia da titolo mondiale. Ma non volli farlo da solo: e poiché avevo la fortuna di annoverare, fra i miei amici più cari, persone che al gusto per la speculazione sociologica più sofisticata univano la passione per il calcio, non esitai ad invitarli, allettandoli con la prospettiva di una cena innaffiata da un rosso importante. Quanto alla padrona di casa, Silvia Di Vona, avrebbe partecipato alla cena e alla prima fase della discussione; poi, verso le dieci e mezza, sarebbe partita da Roma per un breve e opportuno viaggio di lavoro. I tre esperti di calcio erano Massimo Megale, Vincenzo Tersigni e Francesco Sganga: tutti juventini, sia questo detto per ulteriori speculazioni e dietrologie. Quattro nastri da novanta, di quelli usati per registrare le lezioni universitarie, non attendevano che di essere incisi.
La discussione fu lunga, complessa, profonda e ricca di colpi di scena. Ben presto ci accorgemmo che la testata di Zidane non riguardava che superficialmente una partita di pallone. In realtà, innervava la storia di due nazioni, la Francia e l'Europa, e gettava propaggini sui temi più vari, fra cui ovviamente il rapporto fra il Primo e il Secondo Mondo.
Quando, estenuati, ci demmo la buonanotte, saranno state le tre del mattino. Un paio di giorni dopo, mi trasferii nella villa di campagna dei miei (quella settimana in viaggio), dove Silvia mi raggiunse. Lì sbobinai i nastri e poi scrissi il dialogo. In fretta: bisognava battere il ferro finchè era caldo o, per essere meno metaforici, bisognava completare l'opera entro la fine di luglio, cioè prima che le redazioni delle case editrici chiudessero per le vacanze estive. Ci misi circa una settimana.
I tre francesi del dialogo, Jean, Marcel e Annette, vivono a Roma da molti anni e ormai sono mezzo romani, per cui si trovano nella posizione migliore per discutere del coup de boule. I tre non potevano che essere uno psichiatra, un filosofo e un giurista: mi sembrava che queste professioni inquadrassero un piano storico e sociologico meglio che se mi fossi servito direttamente di un sociologo. Ma voglio ricordare che Vincenzo Tersigni è laureato in sociologia (Sganga, invece, è un acuto critico letterario, mentre Massimo Megale è - e speriamo che la definizione gli piaccia - un umanista esperto di economia).
Visto che il lavoro svolto appariva buono, avrei potuto telefonare alle singole case editrici offrendo un testo che trattava di una questione della quale parlava tutta l'Europa; ma il tempo, come detto, era tiranno, sicché preferii inviare il dialoghetto ai più importanti agenti letterari, immaginando che mi avrebbero fatto guadagnare tempo. In effetti, mentre passeggiavo in bicicletta lungo la strada che va da Arpino a Fontana Liri, squillò il cellulare. Era Piergiorgio Nicolazzini, l'agente di Faletti e di altri importanti scrittori italiani. La testata di Zidane gli era piaciuta, avrebbe chiamato lui le case editrici per cercare con urgenza un esito pubblicatorio.
La ricerca, come potete immaginare, non ebbe successo. Un libro che si sarebbe venduto in migliaia di copie a scatola chiusa (nello stesso arco di tempo, in Francia, uscirono tre libri sul coup de boule, uno dei quali firmato nientemeno che da Philippe Toussaint, un autore bravissimo che meritava di vincere il Nobel al posto di Le Clézio) rimase inedito.
Intendiamoci, il dialogo non è perfetto. Rileggendolo a distanza di sei anni, sei anni durante i quali ho curato tanti romanzi come editor da aver sviluppato una sensibilità per la scrittura che prima certamente non avevo allo steso grado, riconosco che La testata di Zidane è, a tratti, farraginoso, e che le opinioni dei personaggi non sono facilmente individuabili, anche perché si vanno formando e deformando attraverso la discussione. Ma è un dialogo che funziona, e che nelle librerie sarebbe stato acquistato anche solo per il titolo che porta. Nicolazzini, vale a dire uno degli editor più stimati e importanti, al quale poi, su suggerimento di Vincent Raynaud e di Alberto Garlini, avrei affidato La gallina, cioè il mio primo romanzo, tentò senza successo di suggerirne la pubblicazione a più di una casa editrice, ottenendo immancabilmente una risposta negativa. E anche ammesso che in Italia gli agenti contino poco, e spesso nulla (negli USA non sarebbe mai potuto accadere che un'opera rappresentata da un agente importante non fosse pubblicata) bisogna riconoscere più semplicemente che era estate, e che le redazioni delle case editrici stavano chiudendo. Approfittare di una fase dell'anno abbandonata da tutti, cogliere l'occasione di un dialoghetto che si sarebbe potuto vendere in migliaia di copie perché ovunque si parlava solo della testata e nelle librerie non c'era niente che ne parlasse... Be', questo per i funzionari editoriali italiani era davvero chiedere troppo.
E' arrivato, finalmente, il momento di distillare la morale della storia. Ebbene, si ha, a volte, l'impressione che la buona letteratura sia difficile da promuovere per l'avidità degli editori, i quali preferiscono pubblicare opere dozzinali pur di fare cassa. E questo è vero, e in effetti accade in tutto il mondo. Ovunque si preferisce mettere in circolazione merce che permetta di far soldi, e in ciò non c'è proprio niente di male: ammesso, naturalmente, che tali guadagni non danneggino nessuno e che, nella peggiore delle ipotesi, lascino l'umanità nella condizione in cui l'hanno trovata, e non la rendano più stupida e più cattiva. Eppure, altrove, quando compare un'opera di valore che, in più, permette lauti arricchimenti, si festeggia. In Italia no. Per due ragioni: la mancanza di professionalità, e il timore che, se per una volta la moneta buona scaccia la cattiva, tale scandalo possa ripetersi. L'Italia, dunque, fa eccezione. Nel nostro Paese, il filisteismo è una pulsione più potente della rapacità. Imparate a memoria questa sentenza, assaporatela e coglietene la terribile portata.
Fabrizio Ottaviani
Nota. La testata di Zidane, l'ordalia e l'onore perduto dell'Italia è reperibile in formato elettronico al seguente indirizzo al prezzo di 3,30 euro:
http://www.amazon.it/testata-lordalia-perduto-dellItalia-ebook/dp/B006NZE5MU
Può essere letto su kindle, o anche sul computer, scaricando l'apposito il programma. Ecco l'incipit:
Fabrizio Ottaviani
La testata di Zidane, l'ordalia e l'onore perduto dell'Italia
Parte prima
Un caso di sonnambulismo indotto
***
- Grazie per essere venuto così in fretta, Jean. È successo di nuovo. Dall’ultima crisi sono passati vent’anni. Avevo dimenticato persino cosa si dovesse fare in questi casi!
- Calmati, non c’è ragione di preoccuparsi. Adesso gli somministro un calmante. Vedrai che tornerà normale.
- È facile, per te, mantenere l’autocontrollo. Sapessi quando gli ho sollevato la benda dagli occhi, e mi sono accorta che erano sbarrati! Per un istante ho temuto persino...
- Su, su... è solo una crisi di sonnambulismo. Dov’è l’insigne giurista?
- Nel suo studio, ancora seduto alla scrivania.
- Sempre immobile?
- Catalettico! Però ogni tanto parla. Alterna discorsi interi, anche molto lunghi e cervellotici, a brevi frasi smozzicate e prive di senso.
- Già. Come accade nel quaranta virgola sette per cento dei casi, almeno secondo l’ultima edizione del manuale di psichiatria.
- Quando si mette la benda sugli occhi, comincia a parlare. E quando la toglie tace di colpo. Eccolo lì. Sembra una statua di sale. Non fa paura?
- A me no. Ci sono abituato. E questa bottiglia?
- Lasciamo perdere. Abbiamo avuto una discussione che nel giro di un’ora si è trasformata in un alterco. Quando ha visto che non avevo intenzione di dargli ragione mi ha mandata al diavolo e si è rinchiuso nel suo studio. Prima però ha preso una bottiglia di porto. Guarda, ne ha bevuto più della metà. Lui che non beve mai.
- Non è vero che non beve mai. Non fingere, Annette. Tuo marito non beve quasi mai. O meglio beve solo quando tu lo esasperi.
- Non vorremo metterci a litigare anche noi, spero. Poggia pure la borsa sulla scrivania. Ecco l’ovatta che mi hai chiesto.
- Grazie. Così, una bella iniezione. Dovrebbe fare effetto in pochi minuti. Forse è stato l’alcol a scatenare la crisi.
- Ma no, non credo.
- E perché?
- Perché sono convinta che è stata colpa mia. Non dovevo irritarlo con le mie teorie.
- Ma davvero? Hai delle teorie?
- Non fare lo spiritoso, non è il momento. Voi medici avete il vizio di trattare i filosofi come se fossero dei bambini.
- Non faccio lo spiritoso, credimi. È un dovere professionale stabilire ciò che potrebbe aver scatenato in tuo marito una crisi di sonnambulismo dopo vent’anni durante i quali sembrava essere guarito. Forza, sputa il rospo. Di cosa stavate discutendo?
- Della testata di Zidane.
- Come hai detto?
- Hai capito bene.
- Deve essere un’epidemia. Ieri, dopo la lezione all’università, sono passato in sala professori a salutare i colleghi. Non ci crederai: non si parlava d’altro. Sono scappato subito con una scusa, ma poi...
- Ma poi anche tu hai cominciato a lambiccarti.
- Proprio così. Anzi, se proprio vuoi sapere la verità, ti dirò che ho alcune idee a riguardo che forse meritano di essere ascoltate. Ma adesso pensiamo a Marcel. Allora, che cosa gli hai detto per spingerlo a ingurgitare mezzo litro di porto?
2011 by Fabrizio Ottaviani
Tutti i diritti riservati
venerdì 13 gennaio 2012
Radio attività
Lunedì 16, alle ore 17,30, Felice Cimatti (che oltre ad essere uno dei conduttori di Fahrenheit è anche filosofo del linguaggio e zoosemiologo) ha intervistato l'autore della Gallina. Su Radiorai 3. Ecco il link all'intervista:
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t=fahrenheit&p=fahrenheit&d=&u=http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/un_libro/archivio_2012/audio/libro2012_01_16.ram
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t=fahrenheit&p=fahrenheit&d=&u=http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/un_libro/archivio_2012/audio/libro2012_01_16.ram
giovedì 5 gennaio 2012
Intimamente eleganti
Da un ipotetico, ancora da scrivere, anti-bierciano Angel's Dictionary. CONSUMISMO: s.m. La nobile arte, padroneggiata dalle persone intimamente eleganti, di usare le cose che già si posseggono fino a consumarle.
mercoledì 4 gennaio 2012
Chissà forse vincente
L'unità, martedì 3 gennaio 2012.
Far fuori la gallina... La missione impossibile di Ottaviani.
di Angelo Guglielmi
Con La gallina, Ottaviani ingaggia una sfida disperata. Chissà, forse vincente. Introduce di soppiatto in un ménage apparentemente tranquillo (in un appartamento alto borghese, dove marito e moglie vivono con maggiordomo e cameriera) una battagliera gallina che si aggira impertinente per la casa, sporcando e distruggendo tutto ciò che sfiora.
Il maggiordomo, rispettoso e pavido, non trova la decisione (forse non ha il coraggio) di afferrare il volatile e tantomeno di ucciderlo, tanto che al ritorno della padrona, che ha molta considerazione di lui, giustifica la presenza della gallina difendendosi con una scusa qualunque, promettendo di risolvere al più presto l'inconveniente. Passano i giorni e la gallina continua a imperversare e fare danni per l'appartamento. Tra i danneggiamenti non c'è solo il prezioso vaso cinese che la gallina, nei suoi movimenti incontrollati, ha fatto cadere, o i tappeti e i divani che ha insozzato con i suoi escrementi, ma più ancora i rapporti tra la padrona e il padrone, già silenziosamente compromessi e ora scopertamente messi in mostra.
Tra il marito (che non sopporta il maggiordomo e gli preferisce la cameriera), la moglie (che odia la cameriera), il maggiordomo e la cameriera (nemici l'uno all'altro) esplode una rissa non solo psicologica che ha per oggetto l'urgenza di liberarsi della gallina; nonché l'ordine perentorio al maggiordomo, e in seconda istanza alla cameriera, di portare in porto l'impresa.
Ordine inutile, che continuando ad essere inevaso trasporta lo smarrimento e la tensione, intanto pericolosamente ingigantitesi, fuori, tra gli amici e colleghi di lavoro dei due coniugi, diventando un saporito pettegolezzo pubblico fino al punto di risolversi con la degradazione della moglie (che perde la responsabilità della società di cui è amministratore delegato) e il licenziamento del marito che, stupefatto per il provvedimento patito, attraversando la strada viene investito da una macchina e muore.
Dunque Ottaviani sceglie lo strumento del grottesco, rinforzato da punte di noir, per operare quella distruzione o meglio smontaggio della realtà che oggi (e non da oggi) non si riflette più nella sua apparenza. E' un'operazione cui ricorrono gli scrittori dai tempi di Mallarmé o forse di Baudelaire, che per primi hanno avvertito l'impossibilità di cogliere il reale attraverso la rappresentazione (come fino ad allora era accaduto) e la necessità di rompere gli schemi logici che tengono in prigione le cose, e di disarticolarle dissotterrandone il senso. Operazione inevitabilmente rischiosa, esposta a facili fallimenti e velleitarismi irrisolti, ma quasi obbligatoria per lo scrittore che voglia porre domande al mondo pur sapendo di non poterne ricevere risposte. Porre domande significa attivare un circuito vitale e fomentare energie che coinvolgono, insieme all'autore, il lettore.
Ottaviani affronta la salita dalla parte più ripida percorrendola come fosse una discesa, mettendo il lettore sempre in sospetto sulla riuscita finché, grazie all'aiuto di un linguaggio ficcante e scivoloso, sembra conquistare la vetta. Riuscirà a impiantarvi la bandiera?
mercoledì 28 dicembre 2011
Primo giorno di scuola
La maestra era vecchia ma entrò nell'aula a passo veloce e salì in cattedra. Poi sollevò un braccio e indicando la finestra disse "Buongiorno, bambini! Oggi splende il...?" Visto che con gli occhi invitava a completare la frase, tutti senza esitare esclamarono in coro "sole!". Tutti tranne me. L'altrui perspicacia mi annichilì: a me, quella mattina del 1974, sembrava che splendessero molte cose. I banchi, le penne nuove, le pareti dell'aula. Il rossetto un po' grumoso della maestra, gli occhi dei miei compagni. Oltre il vetro, poi, splendevano gli alberi, la ringhiera che abbracciava il cortile, il cielo luminoso... Come diavolo avevano fatto gli altri a capire in un istante cosa splendesse in primo luogo, cosa splendesse in una sua diversa, distaccata antonomasia?
martedì 27 dicembre 2011
La traccia animale
Ringrazio Andrea Cortellessa per aver fatto uscire nel giro di qualche settimana (lusinghieri regali di Natale) ben due recensioni della Gallina, che intrattengono un rapporto di differenza deleuziana (una differenza, cioè, non oppositiva). La prima è apparsa sul numero sette di Alfabeta2, ancora in edicola; la seconda sulla rivista svizzera Galatea, un nome che evoca perversioni "unheimliche" non meno che mitologiche. Eccone in calce la trascrizione, qui invece il link a Galatea e ad Alfabeta2:
http://www.galatea.ch/index.php/sommario/diario/libri/item/281-un-fisico-bestiale.html
http://www.alfabeta2.it/
Un fisico bestiale
di Andrea Cortellessa
L’animale, si diceva, è il diverso dall’uomo. In quanto tale da sempre rappresenta un termine di paragone con le dinamiche umane che dallo stato di natura più si discostano.
Nonché, nei loro confronti, quello che è il più delle volte un - più o meno implicito - atto d’accusa. Un apologo di tal fatta si può leggere nel notevole romanzo d’esordio di Fabrizio Ottaviani (La gallina, Marsilio, pp. 237, € 18,50). In cui una «traccia animale» - una gallina recapitata non si sa bene da chi - mette a soqquadro ‘Casa De Giorgi’: la fortezza alto-borghese nel cui claustrofobico intérieur i coniugi Elena e Massimiliano, irreprensibili cittadini di un’innominata città in un imprecisato periodo del Novecento, conducono un’esistenza perfettamente regolata dalla rigida maschera sociale che si sono imposti. La gallina interviene imprevedibile a disorganizzare quell’ordine: mettendone a nudo l’intrinseca fragilità. Tanto la servitù che gli stessi padroni di casa si rivelano incapaci - per l’ossessiva civilisation della quale sono ammantati - di disfarsene nel modo più spiccio e brutale. L’animale immette, in quella Prussia, un elemento selvatico e incontrollato. Bercia, insozza, puzza. La vita sociale dei De Giorgi va a picco e, con essa, le loro lucrose attività. Va così in scena la «caduta di casa De Giorgi», parodia dell’incubo di Poe: un processo farsesco, un’estromissione dalla mega-ditta (pungenti le pagine - tra Kafka e i fratelli Coen - sulla riunione del cda in un’alta torre in preda ai venti), persino un incidente mortale scandiscono un comicissimo crescendo a precipizio (che alle modalità da opera buffa di Palazzeschi deve senz’altro). In una struttura assai tradizionale, ma con scrittura d’ironia sorvegliatissima, Ottaviani riesce a immettere acidi davvero corrosivi di satira sociale, nonché una stralunatezza tutta novecentesca (altri riferimenti vanno indicati in Buzzati e nel Landolfi delle Due zittelle): la gallina della copertina, virata a colori acidi nel filtro che ne consente la visione in 3D, è in questo senso un manifesto.
domenica 27 novembre 2011
La bilancia della tempestività
Di fronte ad un testo evidentemente datato, un regista teatrale ha poche possibilità. Può smorzare le parti che più hanno subito i rigori del tempo, e alzare di converso il volume ai brani meno centrali ma più attuali, sperando che alla fine la bilancia della tempestività non risulti troppo obliqua. E' la scelta "pietosa", quella che soccorre. Può tentare un'edizione filologica, quindi professorale e ad uso esclusivo degli accademici (opzione critico-museale). Oppure può tentare un'operazione ermeneuticamente avventurosa: può mettere in scena per l'appunto l'essenza ormai usurata del testo, il suo nucleo funzionale, e chiedersi chi potrebbe trovarlo accettabile, gradevole o persino appassionante. E' ciò che ha fatto Lavia per I masnadieri di Schiller al teatro India, a Roma. La scena è un profondo parallelepipedo con la base d'argilla, mentre le pareti sono ricoperte di graffiti nello stile di Basquiat. Gli attori, vestiti come hipster, impugnano spesso la chitarra, cantano da soli o in coro, si spostano assieme (come nei balletti televisivi) e quando recitano si muovono come personaggi di un musical sfacciatamente commerciale, per esempio, l'eterno Fantasma dell'opera. Non c'è dubbio: per Lavia il preromanticismo di Schiller, come pure l'altisonante retorica dello Sturm und Drang - didascalicamente richiamato nei graffiti, ovviamente a caratteri gotici - può attrarre solo gli "amici" della De Filippi: è, insomma, cascame, destinabile al massimo al pubblico più sprovveduto. Naturalmente questa operazione aggressiva è, propriamente, un'esecuzione capitale: Lavia vuole uccidere in scena I masnadieri. Purtroppo questa scelta (e si tratta di una scelta non solo legittima, ma proficua) pone un problema: quello della resa teatrale, e in particolare quello della mancata identificazione con le dramatis personae. Per scongiurare la noia, che sarebbe l'immediata conseguenza di questa mancata identificazione, Lavia ha solo due strumenti. Il primo è il periodico ricorso a degli "stalli", in cui una voce fuori campo riporta il tono della pièce al "serio". Il secondo, è la semplicità della mente degli spettatori, i quali nelle due ore dei Masnadieri non hanno esitato ad applaudire a scena aperta proprio i momenti in cui le pulsioni dissacratorie del regista raggiungevano il culmine.
giovedì 10 novembre 2011
Io, invece
Ieri pomeriggio, alle 18,30, presentazione di due romanzi in contemporanea. Decido di accettare, l'invito viene da un'amica. Gli autori stabiliscono di parlare l'uno del libro dell'altro, andrebbe tutto bene ma l'autore n.1 parla per circa un quarto d'ora del romanzo dell'autore n. 2, mentre l'autore n. 2 proprio non ce la fa a ricambiare. A dire il vero ci prova, ce la mette tutta, ma il compito è superiore alle sue forze. E' anche poeta, è troppo self-centered, è inevitabile: per ogni frase dedicata all'altro ce ne sono tre che parlano di sé, del suo romanzo o della sua vita. Si imbarca in una laudatio temporis acti che non finisce più. Ricorda con nostalgia gli anni '60, ha il mito della Vita agra di Bianciardi: quando tutti erano più buoni e poveri e puliti e ancora non avevano sigillato Piazza Vittorio sotto alcune tonnellate di travertino (dimenticando con tutta evidenza che la Vita agra raffigura gli anni del boom economico come un inferno). Biasima anche i radical chic che trangugiano aperitivi al Pigneto, il quartiere amato da Pasolini, e quasi si commuove al ricordo delle poverissime borgate romane di una volta.
L'altro romanziere è leggermente irritato dal fatto che il tempo dedicato al suo volume è stato decisamente inferiore, ma annuisce: in fondo anche il suo libro parla di un quartiere popolare, San Giovanni, e in particolare di un casermone della Cooperativa Tranvieri, cui corre grata la memoria.
Quando vado via, mi avvicino allo scrittore della cooperativa tranvieri e gli dico che leggerò volentieri il romanzo. E anche se temo che nel mio appartamento ci siano troppi quadri per darmi delle arie lumpen, aggiungo che io, a San Giovanni, ci abito. Lui mi sorride e mi risponde con la bonarietà di chi ti allunga una coltellata: "Ma che bello, io invece abito a Via dei Serpenti." Mi congratulo, poi sorrido (solo a me stesso) della mia ingenuità, e mi guardo attorno: siamo praticamente appollaiati sopra Fontana di Trevi, sulla terrazza di un albergo. Potremmo gettare la monetina da quassù ed uccidere un turista giapponese, non se ne accorgerebbe nessuno. La sobrietà è una gran cosa, ma meglio ammirarla da una postazione differente. Più aquilina. Sì, forse abbiamo avuto un passato parco. Ed è giusto abbandonarsi alla nostalgia. Ma non bisogna esagerare.
Saluto anche l'altro scrittore, ma stavolta da lontano. Che la sua vita agra si svolga, attualmente, ai Parioli?
mercoledì 26 ottobre 2011
Mai (nemmeno una volta)
Dopo aver visto A dangerous method - Freud contro Jung secondo un Cronemberg qui al suo minimo storico - posso tranquillamente continuare a giudicare come invulnerabile alla smentita la seguente, inveterata mia convinzione: mai (nemmeno una volta) in un film uno scienziato, un filosofo o un accademico sono stati rappresentati in modo credibile. Ma stavolta si è toccato il fondo: Freud, che per Breton era un petit veillard sans allure, rassomiglia a una specie di grosso boscaiolo con il sigaro sempre acceso e "racconta" i suoi sogni a Jung il quale, figurarsi, "li interpreta". Poi i due si danno il cambio, Jung racconta il sogno e Freud cerca di capirci qualcosa. Per sperare che anche un semplice uomo di concetto sia raffigurato per bene in pellicola bisognerà attendere il giorno in cui i registi saranno filosofi, o i filosofi registi.
martedì 25 ottobre 2011
Zanzotto, il noto ecologista.
Sfogliando i quotidiani il giorno della morte di Zanzotto, noto che soprattutto un aspetto ha colpito i giornalisti: l'impegno ecologista del poeta. Addio al poeta dell'ambiente, è scomparso il poeta delle montagne, il cantore della natura non c'è più: questi i titoli. Ancora una volta, l'equivoco regna sovrano. Come dice Sklovskij nel Punteggio di Amburgo: "Le piazze intorno alle grandi tombe sono lastricate con le buone intenzioni dei filistei, che fanno dono ai morti delle loro virtù".
martedì 4 ottobre 2011
Elogio della frigida
Stanotte, mentre dormivo, il fantasma di Adorno è venuto a trovarmi. In piedi in un angolo della stanza, giocherellava con il mio arco da caccia. Gli erano ricresciuti tutti i capelli. Stavo per interrogarlo quando mi ha apostrofato: "Taci! E domani, appena ti svegli, scrivi al posto mio un elogio della frigida!" Poi ha scagliato un'invisibile freccia in direzione dell'abat-jour, ed io mi sono riaddormentato.
ELOGIO DELLA FRIGIDA
La meccanica e il teatro del sesso, allorché essi siano ricondotti a quel gesto prototipico che, pur deformando e misconoscendo l’essenziale, domina col suo abbozzato formulario sia il linguaggio comune sia l’immaginazione, appare determinata dal desiderio maschile di infliggere e di immobilizzare, cui segue nella donna qualcosa come il subire un sopruso. Tuttavia, se fisicamente e persino politicamente un tale schema appare accettabile, non lo è per nulla se si passa a considerazioni che riguardano il piacere e gli effetti che esso produce. Infatti al progressivo crescere del successo maschile corrisponde non un maggiore potere di controllo sulla donna, ma una sua paradossale fuga sur place, fuga raccolta euforicamente dal gergo nella frase secondo cui lei «va via di testa». In realtà, è andata via del tutto: non appena la trappola sembra scattata, la preda è ormai lontanissima ed avvilisce l’uomo riducendone il ruolo a quello di semplice e anonimo detonatore di processi, i quali hanno in sé, e non in chi li ha fatti scattare, il loro centro. Qui a conferma vale meno la proverbiale e mai stabilita maggiore, rispetto all’uomo, capacità femminile di godere, e più gli occhi chiusi, a motivare i quali è evidentemente estraneo qualsiasi pudore. Che il sentire animale e propriocettivo prevalga sul teoretico vedere non implica infatti alcuna scesa a patti con la materia, ed è anzi il sintomo di un capovolgimento dell’infinitamente vicino nell’infinitamente remoto. Perché questo accade? Perché la carne umana contiene un’aporia. Aristotele sosteneva nel De anima che nel tatto la carne si trasforma in medium, affermazione sbalorditiva che si tollera solo per un secondo, prima di accorgersi che essa distrugge la plausibilità della teoria dell’anima come forma del corpo, palesando l’insostenibilità dell’identità tra vita e conoscenza su cui quella teoria si basa. Che nel tatto la carne sia un medium vuol dire che il corpo animato o conosce o vive, ma mai che esso conosce e vive nello stesso istante. Infatti, poiché la carne fa parte della persona, mentre l’aria e l’acqua (i media del vedere e del gustare) no, nel tatto l’anima è più che mai ridotta ad un punto metafisico e separato, e dunque semplicemente scompare. Il cuscino del corpo, che con la sua vitale opacità impediva che ci si soffermasse troppo a lungo su cosa potesse mai significare un’aderenza tra anima e mondo, diventa corpo estraneo non appena lo si classifica tra gli strumenti; soffocata da partes extra partes, anche l’anima smette ben presto di essere concepibile. È proprio per questo che le donne ripagano con la loro tenerezza i loro amanti soltanto dopo, quando tutto è finito: la gratitudine femminile è basata sulla memoria, non su un presente in cui lo scambio è tale solo ad uno sguardo altro: profodità del voyerismo, che osserva la scissione tra piacere maschile e femminile solo per pacificarli estrinsecamente, e trarre da essi un piacere terzo e finalmente conciliato. Dalla struttura di fuga o di «partenza» del piacere femminile deriva perciò a sorpresa una generale e ricattatoria lezione di moralismo, se per moralismo si intende il rifiuto della pura ed autosufficiente simmetria tra il sé e ciò che esso possiede: la conquista dell’oggetto sarebbe simultanea al dominio solo a patto che il dominio appartenga al campo della magia, e il dominante assomigli all’apprenti sorcier. Paradossalmente, si conquista l’oggetto lasciando che in esso si liberino delle forze centrifughe, e questo proprio nell’istante in cui si spera che la violenza duri eternamente. Bisogna sottomettersi ad una necessità esterna: la felicità è il premio che segue al più mieloso rispetto delle leggi.
A questo cosmo fatale è estranea la frigida, colei che è sempre presente e che non smette di sperare nella comunicazione immediata. Ha compreso che un corpo ridotto a strumento, in virtù della sua perfezione dionisiacamente eccedente, fa torto sia alla materia sia allo spirito, perché impedisce di fare a meno della loro distinzione. Economicamente simula il baratto, l’esclusione di un piacere-cartamoneta che appartenendo al sistema costringe ad immettere il proprio desiderio nel circolo dei beni comuni. Contrasta la brutta piega che prende il corpo quando si lascia andare, e la brutta piega è la scomparsa dell’anima dal mondo, quell’anima che proprio ora, netta ed erotizzata, doveva invece afferrare l’occasione per cancellare da sé la cattiva fama di vuoto fantasma orfico, che la perseguita da sempre. Lucida e sempre ad occhi aperti, a meno che non finga, la frigida si appropria di quel voyerismo che non è solo volontà determinata di possesso, ma anche e soprattutto identità tra sé e l’altro. Sacrificando il piacere alla conoscenza, si ribella all’obbligo di vedere la carne sotto la specie della mediazione e del simbolo; precipitando coscientemente nella propria materia, invece di lasciarsi trasportare da essa come su di un tappeto volante, libera l’uomo dall’equivoco e lo salva dalla condanna di Sisifo.
venerdì 30 settembre 2011
Alberto Garlini parla della Gallina.
Questo è il link ad un breve video di Aberto Garlini, dedicato al simpatico animaletto che annienta casa De Giorgi:
http://www.pnbox.tv/videolink.asp?video=5585.wmv
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