mercoledì 7 marzo 2012

Una patina di vetustà





  Caterina Falotico Vitelli su Fabrizio Ottaviani, La gallina, Marsilio. Recensione comparsa nel numero 267 (gennaio-febbraio 2012) de L'immaginazione.


Già da qualche tempo Fabrizio Ottaviani, nella veste di critico letterario, si è posto il problema del perché in Italia, a differenza di altri Paesi, non sia mai nato il "Grande Romanzo Leggibile", rimanendo così la nostra editoria bloccata nell'impasse fra brutti best seller e libri belli ma senza vendita e senza lettori.
Intanto lui ci prova esordendo con La gallina, un'opera che, come l'animale protagonista, mira a creare scompiglio all'interno di consuetudini consolidate nella narrativa oggi prevalente.
Il romanzo vive di mistero e nel mistero, impegnando il lettore in un non facile lavoro ermeneutico alla ricerca di un significato. Ma il senso ci sarà mai? O è anch'esso una sovrastruttura del pensiero, un baluardo per addomesticare ciò che non è addomesticabile? La gallina, animale apparentemente familiare, cola in sé la lontana origine rapace o di leggendario drago che nell'iconografia religiosa soggiace a un san Michele vittorioso. Qui, invece, è il santo a soggiacere al drago, è l'essere che si ritiene superiore a retrocedere verso una progressiva degradazione fino all'inarrestabile catastrofe.
Questo libro va letto come un sogno e ai sogni non si richiede né la coerenza logica né l'esattezza in qualche modo mimetica del reale. L'autore lascia di proposito in sospeso il luogo e il tempo che fanno da sfondo alla vicenda narrata, avvolge di ambiguità i fatti, come pure i personaggi, peccatori o innocenti, inetti o cinici, sentimentali o glaciali a corrente alternata.
Il tono è a tratti fiabesco con una patina di vetustà che non impedisce squarci di una ben nota contemporaneità. C'è un interno di casa altoborghese con tanto di maggiordomo in livrea, cuoca, busti marmorei e quadri antichi alle pareti; ma ci sono anche un'azienda-grattacielo dalla fragile aerodinamica, dove si complotta con spietata logica economicistica, e un tribunale dalle pareti trasparenti, palcoscenico popolare di una giustizia-spettacolo.
Fabrizio Ottaviani ha voluto tenere insieme l'immaginario e la realtà, facendo convergere "due termini che se vengono contrapposti formano una delle antitesi più fumose". E ci è riuscito scrivendo un romanzo senz'altro intelligente e provocatorio, anche se a tratti appesantito da qualche allegorismo di troppo. Ma anche avrebbe giovato a quella leggibilità invocata dallo scrittore un alleggerimento della parte iniziale che certo risponde allo scopo di creare un alone di irrealtà, imbarazzante e grottesca, intorno agli i inutili quanto rocamboleschi tentativi di uccidere nientemeno che una gallina! Un gesto facile, ordinario che qui si complica - c'è persino i l ricorso ad un chimico facitore di veleni, metà mago metà gaglioffo- in un crescendo di sospetti malintesi illazioni culminanti in una nottataccia al cui confronto la notte degli imbrogli di manzoniana memoria è poca cosa.
Da questo punto in poi la narrazione trabocca di trovate che suscitano sconcerto e stupore, amarezza e comicità, insieme alla sensazione di trovarsi dinanzi ad un beffardo nonsense. In un clima da tragicommedia diventano facili bersagli certi cliché letterari che appartengono al noir e al racconto psicanalitico: la fuga disperata della cuoca Irene nel cuore della mezzanotte per sfuggire al suo inseguitore, un Adelmo trasformatosi in "spietato imperatore cinese"; l'affiorare inatteso di traumi infantili nella confessione-rivelazione del maggiordomo; l'origine familiare alla base dell'ossessione investigativa del medico di guardia.
Pochi i fatti di questo romanzo e si svolgono prevalentemente nell dimora dei potenti coniugi Elena e Massimiliano De Giorgi. Qui, un giorno qualunque, un vecchia vestita da spaventapasseri consegna all'imbranato maggiordomo Adelmo una gallina viva, e lo fa con la perentorietà  e la naturalezza di una fornitrice che esegue una disposizione. Ma la gallina non è mai stata richiesta né dai padroni né dalla cuoca Irene in perenne conflittualità con il maggiordomo. L'animale, entrato in casa, distrugge arredi e suppellettili, deposita dappertutto il suo sterco, cancellando ogni traccia di fasto e di decoro. Complice la gallina starnazzante, si mette in moto contro i De Giorgi un'infernale macchina del fango che procede fra delazioni, sentenze di magistrati compiacenti, denunce di medici in balia delle proprie nevrosi. Essa non si ferma nemmeno dinanzi alla morte, in un gioco al massacro testimoniato dalla truculenta scena di caccia dell'arazzo rimasto illeso sulle pareti del salone avito.
Al lettore è demandato il compito di trovare risposta ai tanti interrogativi rimasti aperti, a cominciare dall'identità della vecchia per finire all'inquietante personalità del maggiordomo, l'unico a ricavare vantaggio dalla tragica fine dei suoi padroni. E tuttavia il focus di tanto mistero è la gallina, simbolo di  un mondo impazzito, di  un "pianeta fuori dai gangheri", ove è imploso ogni tentativo di ragionevolezza, per cui alla fine "non si sa nemmeno se dietro la consegna della gallina vi fosse un piano".
Il romanzo di Ottaviani è un apologo surreale che racconta non solo il tracollo della civiltà, ma anche lo smacco metafisico per cui il male, esorcizzato invano attraverso metafore animali, rimane dentro di noi, nella nostra origine e nella stessa creazione. La gallina non è mai entrata dalla porta di casa, vive da sempre nella dimora umana, essendo la materializzazione di quel Nulla che siamo e da cui veniamo. ("Fu infatti assalita dall'oscura convinzione che quelle penne fossero sorte dalla polvere, e che tra di esse e l'appartamento regnasse un rapporto di filiazione").

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