venerdì 28 dicembre 2012

La forma del fuoco


"E feci quello che ho sempre fatto in questi casi: me ne andai di testa..." Ultimo rampollo di una dinastia nata con il Tristram Shandy di Sterne, anche Giuseppe, il protagonista del romanzo d'esordio di Christian Raimo Il peso della grazia (Einaudi, 455 pagg., 21 euro) è incapace di concentrarsi per più di pochi istanti su una singola cosa. Non sa chiudere un discorso, liberarsi di uno scocciatore, mettere il punto a un capitolo della sua esistenza. Persino quando osserva gli oggetti più banali tende a “sfondarli”, a tuffarsi nella loro essenza fatta di elettroni e di forze elementari, e questo non solo per deformazione professionale (ha ricevuto un finanziamento dall’università per una ricerca che ha lo scopo di stabilire, più o meno, quale sia la forma del fuoco). Il problema è che il lavoro che svolge in laboratorio è lo stesso che lo strema nella vita quotidiana: trovare un sistema per domare la sfiancante complessità del mondo.
Provate anche voi a mettere d’accordo un amico polacco con la tendenza all'autolesionismo; un padre che vive in una masseria, in Puglia; una fidanzata oculista conosciuta al pronto soccorso e abbastanza colta da stenderlo con la lista completa dei ciechi famosi (Omero, Milton, Borges...), prima di accettare una corte talmente svagata da funzionare alla perfezione. E poi, sullo sfondo, una fede frutto di letture non esattamente parrocchiali (Karl Rahner, Pierre Duhem, Jean-Luc Marion) cresciuta sotto un cielo romano di precariato che però miracolosamente non impedisce lo sviluppo di una bella storia d’amore, con tanto di misteriosa “sparizione” e un happy ending che ammicca alla commedia americana...
La vita a n-dimensioni di Giuseppe è una sorta di Vita agra 2.0: mille piani esistenziali che interferiscono, producono smottamenti e piccoli terremoti, si negano l’un l’altro (a cominciare dallo scontro fra fede e scienza) o si sostengono a vicenda senza mai pretendere il conto. La questione, allora, non è chiedersi se Il peso della grazia sia un romanzo riuscito o un coacervo disorganico che mette troppa carne al fuoco. Prima, bisognerebbe domandarsi quanto la nostra trafelata vita assomigli a quella di Giuseppe; e poi, se la forma classica del romanzo, con la sua pitagorica “normalità”, sia ancora in grado di raccontarla senza perdere un briciolo della sua cristallina o arborea eleganza.

Nessun commento:

Posta un commento