Molti anni prima che Il nome della rosa diventasse un best
seller mondiale, finendo negli scaffali delle portinerie e sulle
mensoline dell'elettrauto, Umberto Eco era già un intellettuale
famoso: uscito dalla scuola di Luigi Pareyson, uno dei padri
dell'estetica italiana, si era laureato nel 1954 su Tommaso D'Aquino,
inaugurando un'attenzione per il Medioevo che non lo abbandonerà
mai. Raggiunse la notorietà qualche anno dopo, nel 1962,
conquistando i francesi - sempre bramosi di facili liberazioni - con
un saggio dal titolo folgorante, Opera aperta. Vi si spiegava
che esistono due tipi di testi: quelli che permettono solo una
lettura, le opere "chiuse" (per esempio il libretto di
istruzioni di un frullatore), e quelli che non cessano di generare
interpretazioni. Decine di scrittori, racconterà poi l'autore,
bussarono alla sua porta per sapere se le loro opere fossero aperte;
e se sì, quanto.
L'anno successivo alla pubblicazione di Opera aperta è quello
del "Gruppo 63", la neoavanguardia senza manifesto nata a
Palermo sulla scia dell'austriaca Gruppe 47 di Ingeborg
Bachmann, Celan e Enzensberger. Assieme a Guglielmi, Sanguineti ed
altri, Eco apre euforicamente il fuoco contro la letteratura
tradizionale. I Cassola e i Bassani tremano, anche perché l'attacco
funziona: d'ora in poi, l'Italia disporrà di una separazione netta
fra cultura alta e cultura popolare. Separazione fluidificata lo
stesso anno dando alle stampe il fenomenale Diario minimo,
raccolta di pseudo-saggi, pastiches, micro-capolavori di humor
nero. Un professore ama le ottuagenarie? E' subito "Nonita",
parodia della Lolita di Nabokov. Il nouveau roman
furoreggia? Eco lo incenerisce con una irresistibile esquisse
d'un nouveau chat. Il Diario minimo contiene anche la
celebre "Fenomenologia di Mike Bongiorno" ("Mike
Bongiorno non piace perché è un supeman, ma perché è un
everyman"...); e l'"Elogio di Franti",
assassinio a freddo di quel callido mistagogo e padre putativo della
Patria che fu De Amicis: "In Cuore, a un giorno di
distanza, De Amicis tesse l'elogio di Cavour e di Mazzini,
dimostrando di non aver capito nulla delle profonde incompatibilità
che divisero il nostro Risorgimento". Trent'anni dopo, il
Secondo diario minimo cesurerà la mania dilagante per il
decostruzionismo. Ma sullo scambismo di Eco fra alto e basso, nobile
e triviale, colto e filisteo bisognerebbe aprire un capitolo a parte.
Eco adorava la cultura pop. Dumas, i fogliettoni di Sue, la
fantascienza di Verne. Il fumetto, l'enigmistica, la teoria del
complotto. Tutto gustato con l'entusiasmo del ragazzino che si gode
il romanzo di pirati. Ma era anche capace di zittire il tassista
molesto che gli parlava di calcio ricoprendolo di informazioni
dettagliate sui costruttori tedeschi di flauti rinascimentali, che
Eco suonava "sempre peggio, almeno a detta di Luciano Berio".
Apocalittici e integrati è
il titolo del 1964 entrato stabilmente nel gergo delle persone colte.
Sono apocalittici gli intellettuali convinti che il meglio sia
passato, che ci attenda un medioevo prossimo venturo, che gli
scrittori di ieri siano infinitamente più bravi di quelli di quelli
di oggi. Gli integrati sono quelli che dicono "Però, non è
male, questa televisione..." Notare che i sopravvissuti del
"Gruppo 63" si sono tutti convertiti all'Apocalisse: da
Gugliemi a Arbasino a Vassalli. Ma Apocalittici e
integrati contiene
anche un'analisi del concetto di kitch con
cui gli italiani apprendono a difendersi dai romanzi montati a
tavolino per fare cassa. Quanti lettori di Apocalittici
e integrati amano
Margareth Mazzantini? Nessuno, statene certi. Se poi nella categoria
di kitch finisce
anche Il vecchio e il mare,
fra la costernazione delle professoresse di lettere, pazienza.
Negli
anni Settanta, l'età dell'imperialismo della Semiotica, Eco diventa
una sorta di nume tutelare della scienza dei segni. I saggi
sull'argomento si moltiplicano, manca solo un riconoscimento
accademico della disciplina. Scrive allora una lettera all'altro
dioscuro delle scienze del linguaggio, Tullio De Mauro, pregandolo di
convincere il suo maestro Antonino Pagliaro - grande linguista,
professore di mistica fascista durante il Ventennio ed ora dotato di
attinenze cospicue nel ministero eternamente democristiano della
pubblica istruzione, che la Semiotica non è un'invenzione degli
svizzeri; esiste da sempre nella mente di Dio e dunque merita la
creazione di una cattedra. E cattedra sarà poco dopo, nel 1975,
l'anno del DAMS. Il dipartimento bolognese di arti e spettacolo,
rutilante fabbrica di disoccupati, è anche l'ultimo bagliore del
Sessantotto "creativo", prima che giungano gli anni di
piombo. Ma che nessuno pensi ad una centralità in patria,
nell'università italiana: accademicamene
isolato, Eco era un'isola echiana in un mare di infidi greimasiani.
Il
1975 è anche l'anno del Trattato di semiotica
generale,
un libro brutto che non si leggeva con piacere e che pasticciava
molto in un campo già di per sé confuso, quello dei segni; ma
intanto Eco aveva già pubblicato altri saggi più brevi (per esempio
Il segno,
del 1973) che generazioni di studenti di filosofia useranno con
profitto.
Il superuomo di massa,
anno 1976, rivela che il superomismo diffuso fra la gente deve meno a
Nietzsche e a D'Annunzio di quanto non debba all'Uomo ragno:
avvertendo nel contempo che Superman, in quanto individuo che
combatte la criminalità scavalcando le istituzioni democratiche, è
un'idea pericolosa, parente stretto dell'Uomo della Provvidenza e di
addavenì Baffone.
Nel
1982, in un clima profondamente cambiato, Eco tenta la strada del
romanzo. Le prime ottanta pagine de Il nome della
Rosa sono
un tuffo nel Medioevo latino che oggi provocherebbero una crisi
isterica al più avventuroso degli editor. Un romanzo per pochi? Eco
dichiarerà più volte, non senza divertimento, che intendeva far
stampare Il nome della rosa in
edizione numerata da Franco Maria Ricci, a sue spese, per spedirlo
agli amici. Quel che invece accadde è troppo noto per ricordarlo
qui. Il romanzo aveva un palinsesto, sceneggiava gli ultimi vent'anni
di filosofia europea e in particolare il predominio dell'ermeneutica.
Guglielmo da Baskerville, il monaco-detective che scopre l'assssino,
è il semiologo empirista e antidogmatico convinto che non esistano
fatti, solo interpretazioni. Mentre il serial killer
in
tonaca, Jorge, è un dogmatico che incendia la biblioteca, il suo
Reichstag, perché non si legga la seconda parte della Poetica
di
Aristotele, contenente un fantomatico elogio del riso. Il
nome della rosa è
per metà un cadavere squisito, per metà un solido romanzo di
genere. Il critico letterario più generoso, Walter Pedullà, si
sforzò di fare un complimento ed ammise che il romanzo di Eco "non
è acqua". I danni fatti dal Nome
della Rosa
alla letteratura mondiale sono incalcolabili e tutt'ora incalcolati:
libro senz'anima ed esornativo, implica un lettore vampirizzato nelle
cui vene, al posto del sangue, viene immessa una linfa snobistica e
posticcia fatta di erudizione e compiaciuta ideologia.
Meno
di dieci anni dopo, i tempi sono maturi per la svolta
anti-ermeneutica: nel Pendolo di Foucault il
cancro che uccide Abulalfia allude alle conseguenze di una
interpretazione libera, ormai assimilata ad una metastasi. Sul piano
saggistico, I limiti dell'interpetazione (1990)
è il libro crudele, a partire dal titolo, con il quale Eco
spiega ai suoi studenti in lacrime che la sbornia ermeneutica è
finita, che chi interpreta male finisce male e che insomma l'uomo
deve rispettare il significato dei segni, altrimenti muore. Già
Roland Barthes, del resto, aveva detto senza mezzi termini che la
lingua è fascista. Peccato che nella società postmoderna, quella
che lui stesso aveva contribuito a creare, di rovelli filologici e
interpretazioni "rette" ormai nessuno volesse più saperne.
Dopo
Il pendolo,
altri romanzi sempre più venduti e sempre meno riusciti, fino alla
recente, diffusa insofferenza per Il cimitero di
Praga.
Ma che importa? Una bibliografia chilometrica che copre una quantità
di campi diversissimi; la capacità di incidere sulle discussioni più
disparate; la luciferina capacità di dominare con una ragione
muscolare e raffinatissima chiunque provasse ad ostacolarlo, a costo
di atti di impressionante violenza verbale che i suoi allievi, prima
che i suoi nemici, temevano: questo era Umberto Eco. Da sempre
attratto dalla Gnosi, trovava da villani prendere sul serio l'idea di
complotto. Perché nell'universo di Eco non esiste un fuori che
spieghi il dentro, un alto che spieghi il basso, un "oltre"
storico o morale che dia senso al presente. Nello sterminato
dizionario dell'unico intellettuale di cui si potrebbe dire che è
stato, nella seconda metà del Novecento, ciò che Croce fu nella
prima, solo una voce è stata lasciata deliberatamente in bianco:
quella del sublime.
Fantastico!
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