La
città – “lì dove naufragano
le cose” – è un maelstrom
che raccoglie, concentra e poi,
come nel famoso racconto di Poe, decide cosa precipitare nel fondo
dell’oceano e cosa, scagliato dalla forza centrifuga lontano dal
buco al centro nel mare in cui tutto prima o poi finisce, può
rivivere, riaffiorare, tornare alla luce. La legge che stabilisce
cosa vive e cosa muore è retta dal caso. E dalla necessità, cioè
dalla volontà di alcuni filologi, letterati, collezionisti
fondamentalmente scettici riguardo al buon gusto e persino all’onestà
della Storia: cieca, più che spietata linea che procede imperterrita
ed euforica, lasciando dietro di sé una scia di rottami, rovine,
scarti anche morali.
Il
collezionista, dunque, sa che esiste il maelstrom,
il gorgo, direbbe Pavese, e che per le cose che vi cadono esso si
presenta come il bivio della dottrina orfica: da una parte il
Tartaro, cioè l’oblio, dall’altra la metempsicosi degli oggetti,
la loro reincarnazione in altri corpi mentali.
A
Roma, come in tutte le grandi città, ogni volta che muore una
vecchia che magari ha in casa di una biblioteca ereditata da uno zio
cardinale giungono gli svuotacantine, paragonabili a selvaggi che non
sanno distinguere quasi mai il pezzo di vetro dal diamante. E’ un
fenomeno terribile, a suo tempo sottolineato da Leopardi nel Parini:
si finisce per parlare solo con laureati, o addirittura con gente che
possiede titoli accademici o che tiene conferenze, gestisce case
editrici, scrive sui giornali, da dimenticare che il mondo di norma
non solo ignora i codici dei letterati, ma non è nemmeno in grado di
vederli come lingua. Infatti, li scambia per rumore. In questi casi,
il mondo di solito non distingue un segno dalla materia. Perché,
contrariamente a quello che credono gli studenti di prima annualità
di filosofia del linguaggio, i segni non significano niente; come
diceva Tullio De Mauro, piuttosto significano le persone tramite
i segni. Ma se le persone non
hanno niente da significare in un determinato campo, e ignorano il
codice, una lettera di Moravia non è nemmeno macchiata d’inchiostro:
è solo una carta annerita. Anche Wittgenstein ripeteva che una
regola non ha forza propria. Ci illudiamo che la regola funzioni da
sé, quando invece funziona se qualcuno la fa funzionare. Così può
accadere, come racconta uno dei massimi collezionisti italiani in
Collezionismo di strada
(Edizioni della casa di Goethe, 2018,
42 pagg., 7
euro), Giuseppe Garrera, che l’archivio di Giovanni Macchia finisca
nel mercato domenicale di Porta Portese. In quel caso, i “selvaggi”
abitavano in casa. Erano i parenti stretti, gli eredi. (Mi raccontava
qualche giorno fa mio padre, che con rigore professionale e talento
si diletta di storia non solo locale, del fatalismo con cui un amico
e collega alludeva qualche anno fa agli scaffali della sua
biblioteca. “Quando morirò, andrà dispersa” affermava con il
tono di chi vuole che gli si dica che no, che rimarrà integra.
Naturalmente poi l’uomo è morto e la biblioteca è effettivamente
andata dispersa; e con una velocità più ragguardevole di quella
paventata dall’interessato).
Ecco,
allora, chi è il collezionista che definirei militante.
Esattamente come il critico militante non si limita a studiare autori
già canonizzati, ma è in prima linea, travolto ogni giorno da
mareggiate di libri che gli lasciano sulla soglia di casa plichi,
pacchi, buste di bozze di cui egli dovrebbe stabilire se siano segni
o rumore (e anche i segni dozzinali, dal punto di vista della storia
della letteratura, sono rumore), così il collezionista di strada è
un crivello che deve decidere rapidamente cosa lasciar passare e cosa
trattenere. Il genitivo, in questo caso, è importante: “di strada”
significa trovarsi sul bordo del vortice e dover decidere nel giro di
pochi istanti ciò che merita di finire nel nulla e ciò che merita
di risalire alla superficie. Perché “c’è un giorno solo per le
cose per salvarsi” e “i robivecchi non fanno pulizie e cernite,
riversano tutto ciò che nella casa rivoltata come un guanto hanno
raccolto”. E’ un ruolo, se ci si riflette, che può togliere il
sonno. Quante volte abbiamo letto di capolavori andati distrutti per
una distrazione, per leggerezza: le navi di Nemi riesumate con enormi
sforzi prosciugando un lago e probabilmente bruciate da militari
tedeschi ubriachi durante la ritirata del 1944, tanto per fare un
esempio.
Una
seconda suggestione legata all’attività del collezionista di
strada è quella, di origine agostiniana, relativa alla coppia
usura/fruizione. Una lettera della Ortese è un oggetto che dovrebbe
essere fruito; eppure la storia tritura tutto e se la lettera non
viene riconosciuta e curata finisce per usurarsi; Garrera mostra che
quando i carichi giungono a Porta Portese sono avviliti anche per
questo, perché hanno cominciato ad usurarsi, ridotti come sono a
cumuli di oggetti. Ma le chiavi di lettura che Garrera adombra sono
innumerevoli. Compare l’angelo nuovo di Benjamin, un essere che
aleggia su chiunque sia impegnato a rallentare la macina inesorabile,
ma sempre corruttibile o circuibile, del tempo; cui si potrebbe
aggiungere il nome di Carlo Ginzburg, le cui tracce spie e
serendipity hanno
illustrato quale semiologia si celi dietro l’attività
dell’esperto, del collezionista costantemente impegnato a separare,
direbbe la Bibbia, il grano dall’oglio. Quello di Garrera è un
libro non disordinato, ma caotico: perché la merce giunge sul
mercato in forma caotica e perché le cacce al tesoro hanno qualcosa
di febbrile, di onirico. I temi sono tanti, troppi, come se una
metafora non bastasse a descrivere cosa realmente muove il
collezionista di strada. A parte le pagine memorabili della Peau
de Chagrin nelle quali Balzac,
anticipando di fatto una teoria del postmoderno, lega antiquariato e
miraggio di salvezza con il nodo del patto con il diavolo – Balzac,
di cui si ricostruisce la visita a Roma e l’ossessione antiquaria
in una città che per ovvie ragioni è la capitale del collezionismo
– Collezionismo di strada è
anche un saggio di etnografia: la descrizione dei mercatini di
rigattieri a Roma, con la loro stratificazione sociale ed etnica è
un capitolo importante della geografia cittadina. L’umorismo dei
bancarellari romani fra l’altro si rivela di una qualità
eccezionale, dadaista: venditori che gridano ai possibili clienti
“Andiamo, è tutta roba già rubata! oppure, in un momento in cui
nessuno si fermava: Non spingete, per favore, non spingete! Uno alla
volta!” o ancora: “Oggi ci roviniamo, tutto al doppio!” Fino al
sublime, sovralunare “Forza signori, qui c’è timidezza!”
Emerge, in questi mercatini, l’animismo e feticismo dei compratori,
che si rigirano fra le mani oggetti di nessun valore eppure
magicamente intrisi della vita del precedente proprietario (confesso,
a questo riguardo, di avere sempre attribuito un valore feticistico
agli oggetti appartenuti ad altri superiore al valore feticistico che
attribuisco agli oggetti posseduti da me). Le ipotesi interpretative
si accavallano, come è giusto che sia attorno ad una pratica in cui
la pulsione dell’accumulo ha un ruolo primario. La mitopoiesi e
mitomania: “Ogni venditore a Porta Portese risulta un raccontatore
di favole”. E' doveroso ricordare,
a questo punto, che due scrittori importanti legati a Roma sono degli
antiquari o provengono da una famiglia di antiquari: Filippo Tuena,
che ha rubato alla Pelle di
zigrino il titolo di un suo
romanzo, Tutti i sognatori;
e lo storico dell’arte e antiquario Marco Fabio Apolloni, autore
del notevole romanzo Il mistero
della Locanda Serny e di sonetti
nello stile del Belli. Innegabili, le affinità elettive fra
letteratura e antiquariato, soprattutto oggi: non è un caso che il
primo romanzo spudoratamente postmoderno, L’incanto
del lotto 49 di Thomas Pynchon
(1965), porti nel titolo e nell’explicit
stupefacente un’asta. Forse
viviamo tutti nel retrobottega di
un robivecchi e non sappiamo come uscirne… Si staglia l’immagine
del mercato che sogna se stesso, analogon
terrificante della società
postmoderna che attua il mito borgesiano e decostruzionista di un
linguaggio il cui correlativo oggettivo non è il mondo, ma un altro
linguaggio, in questo caso un’economia che vende se stessa in un
circuito merce-denaro-merce-denaro infinita; quando Garrera parla di
“giro fatato”, difficile non pensare al kula
di Malinowski, la cui funzione
puramente sociale volendo si può accostare all’ “economia prima
dell’economia”, “prima della colpa” tipica dei giochi dei
bambini. Appare sullo sfondo, in Collezionismo
di strada, una posizione
antimarxista Bataille-Baudrillard abituata a privilegiare una
circolazione delle merci basata sullo spreco, la distruzione e
l’eccesso più che sullo scambio. Strana economia, quella del
collezionismo, vicina al furto e al dono: gli unici atti che secondo
Deleuze e Guattari il desiderio conosca. Presenti gli aspetti
maniacali, rimarcati da Roberto Calasso il quale in Come
ordinare una biblioteca, la
strenna Adelphi mandata ai giornalisti per il Natale del 2018 e che
spero Garrera possegga, perché è anche un libro sul collezionismo e
infatti si evoca la vicenda di Chatwin, racconta la storia del ricco
uomo d’affari statunitense che ha messo insieme una collezione di
seicentine, tutte in una stanza, due poltroncine e un tavolo…
Compare l’accenno a lotti famosi, per esempio a quello, su cui ha
scrtto un libro molto bello Lorenza Foschini, appartenente a Marcel
Proust. Non manca un regesto dettagliato delle malattie
professionali, né la descrizione degli abissi che separano
l’antiquario dal bancarellaro, dallo stracciarolo e infine dal vero
e proprio mendicante senza dimenticare il piacere del corto circuito
fra alto e basso: come nel caso degli straccivendoli con in mano
oggetti di solito maneggiati da professori (“Questo mi hanno detto
che è un Guttuso al 100%”, dove l’aspetto esilarante è
accresciuto dal cortocircuito fra l’oggetto prezioso per palati
esigenti, il quadro di Guttuso, e il gergo da bancarellaro). Il
mercato è un’isola del tesoro, una grotta di Alì Babà, una
festa; e la festa, come hanno mostrato gli storici, è parente
stretta della guerra e dunque della morte. La giornata di Chatwin,
cui Garrera dedica pagine bellissime, si apriva alle nove con la
lettura dei necrologi, in attesa che nuovi capovolgimenti
permettessero di riportare alla vita alcuni cadaveri oggettuali.
Perché la vita degli oggetti nelle mani di inconsapevoli padroni di
tesori è un sonno (compare in una pagina l’immagine del
dormitorio, evocata dagli oggetti allineati, imbacuccati nei
fazzoletti e chiusi nei cassetti) o proprio la morte. Dopo la morte
dei loro padroni, gli oggetti rischiano una seconda morte definitiva
(dalla soffitta al cassonetto) ma per alcuni istanti tornano a
vivere, o perlomeno a rischiare di tornare a vivere. Come detto,
nientemeno che l’archivio di Giovanni Macchia ha rischiato di
finire nell’immondezzaio, se Garrera non lo avesse salvato in
articulo mortis ed anche a me,
che ogni tanto cerco prima qualche edizione in rete, è capitato come
a Garrera di vedere su ebay moltissimi libri con dedica autografa ad
Alberto Ronchey. Ora, Ronchey ha una figlia che è una celebre
bizantinista: perché questi libri sono finiti in vendita? Doppioni,
probabilmente. O forse un parricidio postumo? Non mancano gli aspetti
lugubri della vendita: “La costruzione della necropoli come spazio
incantato e definitivo” fa il paio con gli oggetti relegati nel
buio “come Barbablù le sue mogli”. E gli aspetti osceni: le vite
private scoperte e buttate sul mercato; amori, lettere, ricordi
deracinés e
poi sottoposti alla prova del mutamento di contesto, per vedere
quanto valgono al di fuori del loro ambiente. Alla fine, ci si dice
che ogni oggetto è o può essere un talismano, proprio come la pelle
dell’asino selvatico di Balzac: “gli oggetti hanno fortunatamente
la specialità di impiantarsi nell’anima per poi dire all’anima
che cosa fare, e insegnarle e indicarle i miraggi da fuggire, le
terre da esplorare, i depositi e le stanze arieggiate da erigere, i
giardini e le mura da costruire. Bisogna avere l’ingenuità dei
credenti per mettere su una collezione. Ci si ripromette infatti
grandi cose”. E visto che il collezionista, come scrive Goethe nel
“Collezionista
e la sua cerchia”, è un “rinunciante”, qualcuno che per dolore
ha rinunciato all’attualità, prendendo la via alchemica del
“separando”, non può che sognare, scrive Garrera
indubbiamente commosso, “Di recuperare tutto intero il sogno del
proprio regno perduto”.
Nessun commento:
Posta un commento