Domenico Calcaterra (nella foto). "La gallina" di Fabrizio Ottaviani. Articolo comparso nel sito Sul romanzo,
Trovo
più che mai auspicabile il ritorno a una letteratura, una narrativa che
non sia immediatamente rivolta al racconto in presa diretta della
realtà. E reputo oltremodo necessari e preziosi libri (e dunque autori)
che conservino oggi il coraggio intellettuale di andare, in tempi di
facile e scontato iper-realismo, tanto nella lingua quanto nella scelta
delle cose da raccontare, controcorrente. A confermarmelo, semmai ve ne
fosse stato bisogno, l'ottimo esordio romanzesco di Fabrizio Ottaviani,
finora conosciuto e apprezzato come brillante critico militante de «Il
Giornale».
Con il suo La gallina
(edito da Marsilio), Ottaviani ci regala infatti una storia di scarna
essenzialità narrativa, attingendo con sorvegliata misura ai toni
esilaranti della farsa, qui marcatamente virati di humor nero.
Un bizzarro e buffo
dono, la gallina del titolo appunto, recapitata da una misteriosa
vecchia abbigliata come uno spaventapasseri in casa di Elena e
Massimiliano De Giorgi, stimata famiglia dell'alta borghesia d'una ricca
imprecisata cittadina europea, diviene l'inatteso elemento dirompente a
spazzare e mettere in crisi la presunta normalità della vita dei
coniugi (e dei domestici di casa), fino all'inevitabile catastrofe (che
sin dal sinistro avvio viene lasciata facilmente intuire al lettore): la
«caduta di casa De Giorgi». Dall'interrogarsi sul mistero di
quel curioso regalo alla necessità di sbarazzarsene in fretta per
ragioni di decoro e rispettabilità, la carica distruttiva innescata da
quella indesiderata e inquietante presenza animale segna un'escalation
di lacerazioni e attriti, invidie e ripicche, debolezze e pretenzioni.
La gallina, fungendo da detonatore assurdo, risulta essere dunque la
vera protagonista della storia, allegoria della condizione umana, o
meglio della miseria morale dalla quale non salva nemmeno l'accomodante
bugia di «un'abitudine senza usura»; che quando si spalanca,
lucido, lo sguardo sulla desolante regione del nostro quotidiano, la
minaccia d'estinzione già incombe. Ma funziona forse e ancor più come
impietoso monito contro ogni trascurato cedimento, smarrimento privato o
collettivo.
Come a voler far
conoscere i singoli universi esistenziali d'ognuno, Ottaviani fa entrare
in scena ciascun personaggio nel momento cruciale dell'incontro con la
spiazzante grottesca novità, costruendo un simmetrico contrappunto di
rapporti e alleanze incrociate tra le due coppie: i padroni di casa Max
ed Elena e i due domestici, il maggiordomo Anselmo e la cuoca Irene, «copia attiva»
e rissosa dei loro padroni; tutti presto inesorabilmente coinvolti in
un'asfissiante spirale di crescente ottusità. A suggellare lo «stigma del grottesco»
non poteva infine mancare il risvolto legale, similkafkiano, della
faccenda, con tanto di celebrazione di un paradossale processo per
corruzione di cui il sinistro dono costituirebbe la prova (di scoperta
ascendenza kafkiana riescono inoltre taluni luoghi come il tribunale
fatto di lastre trasparenti di cristallo, perché tutti possano seguire
dall'esterno lo svolgimento d'ogni processo, e l'imponente sede delle
Nuove Imprese Stabili, nel cuore della città, un grattacielo-pendolo in
vetrocemento dal precarissimo equilibrio).
Asciutto, nel suo
prefigurarsi come minimale meccanismo, esperimento narrativo più che
vera autentica narrazione (tanto che sin da subito monta la curiosità
per il lettore di sapere fin dove lo scrittore voglia menare la danza),
il teatrino grottesco allestito da Ottaviani colpisce per il suo filare
dritto al punto, con implacabile, appuntito e chirurgico dettato, senza
sbavature e mai nulla concedendo a leziosi indugi di colore.
Ottaviani, infine,
non rinuncia a raccontarci, epperò sempre nella sua maniera allegorica,
della storia attuale del nostro Paese, quando inserisce nel romanzo quel
medaglione figurale (quasi una visione decontestualizzata dal resto)
del ragazzino che si affretta ad abbozzare sulle pareti translucide del
palazzo di giustizia una mongolfiera tricolore che trascina in cielo due
passeggeri: uno ghignante e armato di lanciafiamme, l'altro che tenta
di bloccarlo, ma terrorizzato di compromettere del tutto la gita in
pallone. Un'iconetta assai eloquente (più di mille spiegazioni)
sull'Italia e il carattere bifronte degli italiani.
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